Opinioni

Occidente, eutanasia e algofobia. Ma questo non è buon «diritto»

Francesco Ognibene domenica 16 aprile 2023

C’è un vuoto normativo, va tolta una discriminazione, è una questione di giustizia, il diritto deve valere per tutti. Quante volte abbiamo sentito risuonare questi concetti, all’apparenza incontestabili: chi non vorrebbe sanare un’ingiustizia con un provvedimento che va a colmare un’inspiegabile lacuna legislativa? Ma una volta di più è la materia sottesa a questa retorica a mostrarci il punto cui è giunta anche nel democratico Occidente la torsione innaturale di concetti – diritto, giustizia, libertà – che dovremmo maneggiare meno sbrigativamente. Perché dentro l’incarto c’è quasi sempre la vita umana, dai suoi inizi e nel suo svilupparsi esistenziale sino al tratto terminale, ovunque si presenti in condizioni di gran debolezza e dipendenza.

A ricorrere al frasario dei “diritti negati” stavolta è Ernst Kuipers, che in Olanda fa il ministro della Salute nel governo centrista del liberale Rutte, ma che della salute ha un concetto creativo visto che per lui – e per i partiti che sostengono l’esecutivo – la giustizia sociale si ottiene estendendo a tutti i cittadini senza limiti di età la possibilità di accedere all’eutanasia, inclusa quindi tra le prestazioni di un servizio sanitario che voglia essere realmente universale. Nessuno escluso: è la società ideale, con uno Stato che assicura servizi efficienti per ogni necessità. E visto che la legge eutanasica olandese del 2002 li aveva tutelati, Rutte è deciso a far fare il passo avanti perché i bambini non debbano vedersi negato il “diritto” di morire a comando: se soffrono in modo intollerabile, che si facciano morire subito anche loro, su richiesta di genitori e medici, che ritengono la soppressione del figlio e del paziente il suo «miglior interesse».

Alla ripugnanza istintiva che ogni essere umano razionale avverte verso la morte somministrata a un piccolo tra uno e 12 anni (anche oltre, verrebbe da dire, ma questa frontiera è già stata valicata da tempo in un gruppo di Stati, non solo nei Paesi Bassi) viene in soccorso un altro concetto al quale ci stiamo assuefacendo, ovvero la sofferenza per una malattia giudicata inguaribile. Qui arriviamo al punto centrale della novità che ci porta l’annuncio (non nuovo, ma stavolta determinato) del governo olandese. Perché nell’idea che si possa arrivare alla soppressione legale di un bambino sofferente, anziché prodigarsi con impegno, delicatezza, affetto proporzionali alla sua fragilità per prestargli tutte le cure umane e cliniche possibili (inguaribile non è sinonimo di incurabile!) c’è un atto di accusa per noi adulti che fa spavento. Quale genitore, quale medico, quale giudice, infatti, può concepire il farmaco letale come risposta (loro, nostra…) alla sofferenza? Chi pensa che davanti all’acutezza del dolore ci sono solo rassegnazione e fuga. Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha scolpito questa idea nel concetto inesorabile della «algofobia», la «paura generalizzata del dolore» che spinge a evitare «qualsiasi circostanza dolorosa» e a cercare «un’anestesia permanente», dando vita all’utopia di quella che definisce «società senza dolore». Un tratto evidente tra i più giovani che scorgono l’impaccio crescente di non pochi genitori a fronteggiare con dignità privazioni e situazioni onerose proposte dalla vita, patendo anche così le grandi esigenze e incertezze del nostro tempo.

Dentro questa fuga dal dolore c’è un aspetto umano del tutto comprensibile. La medicina e la tecnologia ci offrono sempre nuove soluzioni terapeutiche che prolungano la vita anche in condizioni di inadeguatezza fisica e noi vogliamo vivere più a lungo, ma ci spaventa che questo possa comportare un prezzo in termini di sofferenza. Quasi istintivamente cerchiamo una possibile uscita di emergenza, se proprio non dovessimo farcela più.

Questo spiega la progressiva accettazione sociale della idea, ritenuta insensata sino a poco tempo fa, di norme che permettano di farla finita quando lo si ritiene necessario. Ma è proprio l’eutanasia estesa ai bambini che arriva a scuoterci dal torpore della ragione: cosa c’è nella sofferenza più estrema di chi può solo affidarsi al suo prossimo (la mamma, il papà, i medici, la comunità) se non il grido disperato della natura umana che chiede abbraccio, soccorso, carezze? Cosa c’è se non la nostra comune, elementare umanità, che spera oltre dolore e paura, e sa essere persino più forte della morte. Davvero davanti al dolore inerme sarebbe civile offrire una morte istantanea anziché la forza di ogni possibile e ragionevole atto di cura?

Nel bambino che muore per l’iniezione letale degli adulti, ai quali è affidato, c’è anche la rinuncia della società a farsi realmente carico della sua parte più debole: delle persone migranti e degli anziani immemori, dei nascituri e dei disabili, dei poveri e delle donne abusate. Così si continua a costruire la «società senza dolore», che i filosofi già vedono e contestano. Una società che cambia canale, per distrarsi, fuggendo anche con la morte ciò che non sa più fronteggiare e umanizzare. Ma questo è quel che è, non certo un “diritto”.