La vicenda di Nadia Toffa. Una battaglia buona. Ma proprio mai il cancro è un dono
Le parole sono importanti. Non sono tutte uguali. Dovrebbe averlo chiaro chi delle parole fa la sua professione. Un giornalista, per esempio. Una giornalista con un’enorme popolarità, ancora di più. Nadia Toffa è una delle 'Iene', sa come usare i media e lo ha dimostrato nella buona e nella cattiva sorte. Ha condiviso sui social le fotografie scattate durante le cure a cui si è sottoposta, dallo scorso inverno, per un cancro. Ora, nello stesso modo, presenta il libro che racconta il suo viaggio nella malattia, 'Fiorire d’inverno'. «Ecco qui, ragazzi, in questo libro vi spiego come sono riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga, il cancro, in un dono, un’occasione, una opportunità».
Ma le parole sono importanti, e questa volta Nadia, che pure tanta simpatia e affetto aveva raccolto nei mesi delle terapie, non fa centro. Perché se è legittimo pubblicare un libro sulla propria esperienza da malata (cinicamente si potrebbe parlare quasi di una tendenza, una moda, insomma, che rispecchia questi tempi in cui niente è privato e tutto è pubblico, anche un tumore e perfino il suicidio di un figlio, come ha dimostrato nei giorni scorsi la povera Lory Del Santo), non è altrettanto legittimo sostenere che il cancro è un dono. No, Nadia ha commesso un errore (quasi) imperdonabile e sui social media, difatti, non le hanno risparmiato critiche e insulti, talvolta insopportabili. Un figlio è un dono, la vita è un dono, l’amore e l’amicizia sono doni. Ma un tumore? Ci sono stati tempi in cui la malattia era considerata un castigo per chissà quali colpe. E si teneva nascosta, non se ne parlava, era vissuta come un segreto tutt’al più familiare. Il cancro era il «brutto male».
Oggi invece se ne discute, se ne scrive, si pubblicano libri autobiografici. E può essere un bene, se ciò aiuta altri a non sentirsi soli o stigmatizzati nella malattia. Però definire un cancro un dono, ai più è sembrato davvero eccessivo, pur concedendo che lo può essere stato soggettivamente per la Iena Toffa: una donna celebre, non ancora 40enne, che ha avuto la possibilità di curarsi in un ospedale adeguato, con medici e personale preparati, con una diagnosi sufficientemente precoce, in un momento in cui la sua salute generale era buona... Ma ognuno conosce storie di dolore, di sconfitta, di delusione, di lotta strenua verso un orizzonte oscuro: pochi definirebbero un tumore un dono, dopo aver perso un’amica, un padre, o un figlio, o aver condiviso il tormento di una chemioterapia, di un intervento, di una ricaduta. Una malattia è sempre un inciampo, un ostacolo, una croce che non si può rifiutare. Purtroppo. «Padre, allontana da me questo calice...».
Non si può vivere senza sofferenza, ha scritto Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, e la sofferenza è il luogo dove sperimentare e imparare la speranza. Lo si può sussurrare, si può pregare perché ciò avvenga, perché il malato e coloro che lo amano trovino un senso anche nelle ore più buie, perché il soffrire renda, se possibile, una persona migliore, più sensibile alle pene degli altri, più grata del bene che ha ricevuto. Aver raggiunto questo traguardo, però, non può essere esibito come un trofeo, come una medaglia che rende un malato 'migliore' di un altro. Nadia Toffa, che non dubitiamo animata dalle migliori intenzioni di testimoniare al mondo la nuova filosofia secondo la quale volere è potere, scrive: «Non ho mai sospeso la vita per la malattia, per il cancro e nessuno dovrebbe farlo. Ecco come ci sono riuscita. E se ci sono riuscita IO... ci può riuscire chiunque».
Ancora una volta, le parole sono importanti e queste non sono quelle giuste. I tumori non sono tutti uguali. E nemmeno i malati sono tutti uguali: diverse le diagnosi, diverse le possibilità di cura, diverse le relazioni da cui trarre coraggio. Ci sono malati che non riescono a reagire, che manifestano delusione, sconforto, fragilità. Che 'sospendono la vita' semplicemente e umanamente perché non ce la fanno a tenere tutto insieme. Alcuni invece si aggrappano alla normalità; non depongono mai le armi. Altri affidano a un Altro la propria sofferenza. Non c’è un modo giusto e uno sbagliato per affrontare un cancro. C’è il proprio. Ed è abbastanza.