Riforma del Rdc: ipotesi allarmante. Ma la prima non è buona
Tagliare più che aiutare, costringere più che includere. A leggere le bozze della riforma del Reddito di cittadinanza – anticipate ieri dal “Corriere della Sera” e 10 ore più tardi ridimensionate a un «primo draft » dal ministero del Lavoro – la sensazione è quella di un intervento in buona parte di carattere punitivo. Traspare con una certa chiarezza, infatti, non solo l’obiettivo di risparmiare tra i 2 e 3 miliardi di euro di spesa pubblica l’anno, anzitutto riducendo gli importi pagati e restringendo notevolmente la platea dei beneficiari della nuova “Misura per l’inclusione attiva” (Mia). Quanto soprattutto la volontà di agire sulla leva del bisogno, togliendo ai poveri e ai disoccupati le certezze prima assicurate da Reddito e Pensione di cittadinanza.
Con l’idea che tornare a spingerli nel bisogno li renda più attivi nella ricerca di un’occupazione e li costringa, appunto, ad accettare un lavoro purchessia. Nel disegno finora trapelato di questa nuova Mia, infatti, sono diversi i punti critici. A cominciare dalla netta divisione della platea fra occupabili e no e dalla definizione di queste due tipologie. In particolare, sarebbero considerati “non occupabili”, oltre a minori e anziani, anche le persone maggiorenni nel cui nucleo familiare compaiono bambini e nonni, evidentemente presumendo a prescindere che questi soggetti siano inattivi perché impegnati nella cura familiare. Una suddivisione piuttosto arbitraria e non basata su un dato qualitativo oggettivo.
La divisione in una di queste due categorie determina, oltre che un diverso percorso fra affidamento ai Comuni (per i non occupabili) e ai Servizi per l’impiego pubblici e privati (per gli occupabili), anche un differente destino. In ordine alla durata massima del beneficio – 18 mesi per i non occupabili, 12 mesi per gli occupabili – e alla consistenza del beneficio previsto: 500 euro per i primi, appena 375 per i secondi. Inoltre, per entrambe le categorie si ipotizza un décalage per i rinnovi la cui durata sarebbe ridotta di 6 mesi e con la terza domanda presentabile solo 18 mesi dopo la conclusione della seconda tranche di sostegni. Ancora, la platea dei potenziali beneficiari viene allargata agli stranieri con almeno 5 anni di residenza in Italia, anziché i 10 anni previsti dal Rdc, limite da anni al centro delle critiche degli esperti ed esposto a possibili contestazioni da parte della magistratura italiana ed europea. Ma si prospetta contemporaneamente una tale stretta dei limiti di reddito Isee (da 9.360 a 7.260 euro) per accedere alla nuova Mia tale da far prevedere un forte ridimensionamento del numero di persone supportate, proprio nel momento in cui la crescita dei prezzi dovrebbe invece determinare un aggiornamento al rialzo dei tetti massimi entro cui una persona e una famiglia devono essere considerati in povertà.
Sono, però, soprattutto altri due i deficit che questo abbozzo di riforma fa emergere. Il primo riguarda gli interventi di istruzione e formazione che ancora non si sa come, quando e se verranno attivati. E non è certo questione di poco conto, se si considera che i cosiddetti “occupabili” sono spesso persone in condizione di grande svantaggio sociale, assai poco scolarizzati o disoccupati da molti anni, che tra 5 mesi saranno lasciati senza alcun mezzo di sostentamento. Il secondo, non meno importante, riguarda l’annosa questione delle famiglie con minori che il Rdc penalizza rispetto ai singoli a causa di scale di equivalenza , come “Avvenire”, Caritas e molti esperti hanno sottolineato fin dal 2019, senza però che alcun governo fra quelli che si sono succeduti da allora vi abbia messo riparo. Ebbene, secondo alcune indiscrezioni emerse ieri, il governo Meloni sarebbe sì intenzionato a rivederle ma, paradossalmente, finendo per penalizzare le stesse famiglie numerose.
Si ipotizza, infatti, di non contare più i minori nelle scale di equivalenza (oggi pesano per lo 0,2) e di riconoscere per loro solo l’Assegno universale per i figli e una quota fissa di 50 euro. In realtà, già oggi l'Assegno per i figli non viene riconosciuto in maniera piena ai percettori del Reddito di cittadinanza, ma viene decurtato della quota per i minorenni computata nel Rdc. Ma l’assegno unico per i figli dovrebbe essere una misura universale da non considerare un “doppione” rispetto alle politiche anti-povertà. E dunque o torna piena la corresponsione dell'Assegno per i figli e si aggiunge la quota di 50 euro o ne potrebbe derivare un ulteriore taglio per le famiglie più numerose.
Così, oltre che un danno gratuito alle famiglie il taglio rappresenterebbe una scelta fortemente iniqua. Proprio ai più poveri, infatti, verrebbe dato di meno, alle famiglie maggiormente bisognose sarebbero più limitati i sostegni. È solo un «primo draft », si sono affrettati a dire dal ministero del Lavoro, fatto trapelare – come al solito – per “vedere l’effetto che fa”. E qui il sapore amaro della voluta penalizzazione dei più deboli è davvero difficile da ignorare.
Un disegno costruito a partire non da una visione europea di welfare per tutti, ma dalla vecchia concezione che la povertà sia una colpa, i poveri e persino i loro figli persone poco meritevoli. Il bello delle bozze, pardon dei «draft», però, è che si possono sempre stracciare e riscrivere daccapo. Fossi la ministra Marina Calderone, questa non la farei Mia.