Siamo tutti imperfetti, feriti, menomati. Ma la nostra vita è una Paralimpiade
Si parla tanto di sport e di campioni, perché nei campioni tendiamo a immedesimarci, vorremmo vincere come loro vincono. Salvo qualche virtuosa eccezione in genere si parla poco delle Paralimpiadi, perché vi partecipano atleti con qualche handicap, e noi, noi cosiddetti 'sani' (ma nessuno lo è interamente), li consideriamo atleti minori: se vogliamo somigliare ad atleti, vogliamo che siano i massimi. Non ci rendiamo conto che la nostra vera competizione ininterrotta, nella quale siamo impegnati quotidianamente col nostro lavoro e la nostra vita, non è un’Olimpiade ma una Paralimpiade. Siamo tutti imperfetti, feriti, menomati, handicappati. La vita non risparmia nessuno. Neanche quelli che vivono separati e riveriti, che fanno lavori tranquilli e apparentemente sereni, neanche i genî, gli attori, gli scrittori, gli scultori…: tutti sono segnati dalla lotta contro la materia che usano, la parola, lo scalpello, la penna, lo strumento. Non mi son perso una gara, delle Paralimpiadi. Mi sono riempito di orgoglio e di meraviglia vedendo ragazzine che vincevano la medaglia d’oro e, immobilizzate sulla carrozzella, esclamavano con tutto il fiato che avevano in gola: «È il giorno più bello di tutta la mia vita!».
Anche della vita anteriore all’incidente, figlia mia? quando avevi le tue gambe? Che gioia mi dà la tua esultanza! Altro che l’esultanza di Icardi! Dunque la vita dopo una disgrazia può essere meglio della vita di prima? Si può correre e gareggiare e vincere anche con un handicap? Ci sono quelli che lo fanno. Anzi: tutti lo facciamo. Non facciamo altro che questo. Guardo Zanardi che vince l’ennesima gara con la sua handbike, e addenta la medaglia d’oro, e vedo i tanti maestri di scrittura che trionfano nonostante le bòtte e i colpi che la vita gli ha dato. Da Dante a Pontiggia. Passando per Petrarca, Tasso, Manzoni, Pirandello, Svevo, Moravia, Zanzotto… La gara della scrittura non è un’Olimpiade, ma una Paralimpiade. Per riuscire nell’impresa, per creare l’opera che hai in mente, tu devi combattere contro problemi e limiti e mali che neanche immaginavi. Proust usciva in carrozza di notte per vedere Parigi, e sigillava ermeticamente le porte, che non entrasse lo smog.
Aveva l’asma. A 42 anni Sartre, a cena da una signora, sollevò un bicchiere e il bicchiere gli cadde, frantumandosi. Da quel momento dubitò delle sue mani. Moravia, convalescente, per fare un po’ di movimento scendeva a pianterreno e cominciava a passeggiare sul Lungotevere della Vittoria, ma una forza irresistibile lo costringeva a girare in tondo, lungo il perimetro dell’isolato. Dopo due-tre giri, rientrava in casa. Cos’era quella forza, non l’ha mai saputo. Siamo tutti handicappati. Gli atleti delle paralimpiadi sanno dove e quando hanno avuto l’incidente o la malattia che gli ha inflitto la menomazione, e la medaglia d’oro che addentano è la malattia che vogliono mordere e distruggere.
Ma chi ha una ferita psichica, e tutti ne abbiamo, non la conosce o non la ricorda o tende a rimuoverla. Siamo tutti feriti, anche moralmente: abbiamo tutti peccato e la distinzione non è fra chi ha peccato e chi no, ma fra chi s’è fatto perdonare e chi no. Con Zanzotto non si riusciva a fare cento metri neanche in auto: diceva che gli s’infogava una gamba, poi l’altra, dovevi frenare e farlo scendere. Non camminava. Poi leggevi le sue poesie, e capivi che volava. Lui non era nel nostro mondo, era in un altro mondo, dove si muoveva con altri mezzi, inimitabili. Immagino questi atleti paralimpici nelle loro case, in difficoltà nel muoversi, afferrare un oggetto, usarlo.
Poi li vedo in gara, sulla pedana, sulla bicicletta a mano: mostri di potenza. Siamo tutti come loro, anche quelli fra noi che si credono dei genî, viventi una vita superiore: abbiamo tutti degli handicap, fisici o psichici, e chi non li ha è perché li nasconde, mentendo. Fra Icardi e Zanardi, il modello che ci rappresenta è il secondo, non il primo.