Ma il peggio non è libertà. I tanti big che ora negano spot ai social
La campagna #StopHateForProfit sta avendo un successo inatteso: in meno di tre settimane 242 aziende, compresi giganti come Unilever, Microsoft, Coca-Cola o Pfizer e decine di altri marchi di fama mondiale, hanno aderito all’appello per rimuovere la pubblicità da Facebook e Instagram per almeno tutto il mese di luglio. È sorprendente vedere tanti manager di multinazionali partecipare a un boicottaggio contro un’impresa multimiliardaria con la quale lavorano da tempo, presumibilmente con reciproca soddisfazione. Divisioni e scontri sono nemici del business. Le imprese in genere non amano schierarsi su temi politici o sociali e tantomeno prendersela con un avversario preciso, a meno che non sia già così debole da essere innocuo. Invece ora Mark Zuckerberg è isolato e sotto attacco.
I promotori della campagna, tutte organizzazioni a difesa delle minoranze, chiedono che Facebook agisca concretamente per fare sparire dalla piattaforma i messaggi d’odio, cacciare i gruppi razzisti, antisemiti o dedicati al disprezzo di altri gruppi sociali, cancellare le notizie false e la propaganda politica più sleale. Propongono dieci misure precise 'per iniziare', perché le decine di misure adottate dal social network in questi anni non hanno cambiato nulla.
Il primo filmato di risposta di Zuckerberg merita di essere guardato (per chi può e vuole vedere il video ). Il giovane fondatore di un impero da 70 miliardi di dollari di ricavi all’anno si mostra nervoso e promette che qualcosa sarà fatto: 'etichette' sotto i post dei politici che inviteranno gli utenti a verificare le loro dichiarazioni, nuove restrizioni per contrastare i messaggi di odio e le minacce, chiusura di gruppi estremisti. Facebook modificherà anche il suo algoritmo per mettere in evidenza le notizie affidabili scritte da giornalisti.
Presto partirà una campagna per educare gli utenti a riconoscere le fake news. Ma il 36enne Zuckerberg non ha la durezza di un Jeff Bezos, capace di mettere il successo economico di Amazon sopra ogni cosa: il fondatore di Facebook resta un nerd, un genio informatico innamorato della sua creatura. Quindi Facebook non cambierà davvero: nonostante la minaccia di perdere miliardi di dollari di pubblicità (con il rischio concreto di diventare progressivamente irrilevante), Zuckerberg vuole contenere al massimo gli interventi per limitare la libertà di espressione sul suo social network.
Anche quando quella libertà finisce per essere usata in modo sgradevole, se non orribile. L’amore del fondatore per il 'libero pensiero' e la sua espressione può essere il lato romantico di Facebook, ma è anche la brutta essenza del suo business.
Zuckerberg sa benissimo che i post più ottusi, divisivi, e radicali sono quelli che più facilmente diventano “virali”, e quindi generano clic e incassi dalla pubblicità. Davvero la sua azienda guadagna anche grazie alla popolarità dell’odio. Non è colpa del fondatore, ma è così che funziona il rapporto tra l’uomo e i social. «I social media sono di parte, ma non perché siano di destra o di sinistra. Tendono verso il basso. La relatività facilità con cui le emozioni negative possono essere usate per creare dipendenza e manipolare produce risultati aberranti. Una sfortunata combinazione di biologia e matematica favorisce il degrado umano», ha scritto Jaron Lanier, guru della realtà virtuale diventato un raffinato osservatore e un feroce nemico dei giganti della Silicon Valley. Se Facebook non sa e non può cambiare, sta ai suoi clienti decidere se continuare a frequentarlo o meno.
E i suoi clienti, quelli che portano il 98,5% dei ricavi, non sono gli utenti (che infatti non pagano) ma gli investitori pubblicitari. Le aziende devono decidere se accettare che le persone vedano i loro spot mentre sono immerse in un ambiente digitale ricco di contenuti negativi. «Come investitori pubblicitari vogliamo che la nostra pubblicità sia a fianco del meglio dell’umanità, non del peggio », ha spiegato con semplicità Brad Smith, presidente di Microsoft (per chi può e vuole: QUI IL DISCORSO ). Ma si può fare un passo avanti ulteriore. Unilever non si limita a partecipare alla campagna, ma ha sospeso gli spot su tutti i social, spiegando di ritenere che «in questo momento continuare a fare pubblicità su queste piattaforme non aggiungerà valore alle persone e alla società». È la stessa domanda, meno collettiva e più personale, che questo crescente clima di diffidenza verso i social fa arrivare a ognuno dei 2,5 miliardi di utenti: siamo sicuri che Facebook stia portando alle nostre vite più “valore” di quanto ne stia togliendo? La risposta, purtroppo, non è scontata. Eppure ai responsabili del peggio travestito da libertà non si possono fare sconti.