Ddl Zan. Ma con l'identità di genere si vuole annullare la donna
Fin dagli inizi si è rivelato molto difficile aprire sul ddl Zan una discussione che coinvolgesse la più ampia opinione pubblica. Sono mancate le sedi per un confronto serio, pacato, che consentisse di mettere in luce le implicazioni di alcune formule presenti nel testo. Poiché si tratta di questioni all’apparenza molto semplici ma in realtà estremamente complesse e 'di frontiera'. Sarebbe stato opportuno, per raggiungere l’obiettivo che il ddl si propone, seguire una prassi che ha dato buoni frutti: in campi eticamente e culturalmente sensibili, è bene cercare il più largo consenso senza trasformare queste istanze di civilizzazione della vita associata e di rispetto delle persone in una contrapposizione di schieramento politico, schiacciando, come purtroppo è accaduto, ogni voce critica su una secca alternativa 'sì o no', prendere o lasciare.
Ma veniamo al merito. Al contrasto dell’omotransfobia sono stati aggiunti, in maniera impropria, altri temi e soggetti che sarebbe invece opportuno non inserire per evitare confusioni e imprecisioni. Si è poi compiuta la scelta di adottare la dicitura 'identità di genere', invece che 'identità transessuale', per riferirsi alle persone transessuali. Questa formulazione è il cuore del ddl Zan e da essa discendono altre criticità rilevate da più parti riguardo agli articoli 4 (libertà di espressione) e 7 (la scuola).
Ed è sull’identità di genere che mi soffermerò, cercando di chiarire la portata effettiva di questa scelta 'lessicale'.
Innanzitutto tale dicitura non serve affatto a definire meglio i crimini che questa legge vuole perseguire e combattere. Basterebbe 'identità transessuale' e tutto il quadro delle discriminazioni e violenze che colpiscono le persone trans verrebbe completamente coperto. L’espressione 'identità di genere' introduce e legittima nel nostro ordinamento costituzionale e legislativo un profilo non previsto, ovvero l’identità sessuale sulla base dell’autopercezione e della sola manifestazione della volontà soggettiva. L’identità transessuale e l’identità di genere sono due formulazioni che significano cose diverse. La prima indica la condizione, a volte dolorosa e drammatica, delle persone trans, la seconda veicola una visione o un progetto politico-culturale: quello di negare il fatto che l’umanità sia composta di due sessi affermando invece che l’identità si fonda solo sul 'genere' (meglio, sui generi tanti e vari), un puro costrutto storico-sociale.
La dicitura 'identità di genere' è così definita all’art.1 del ddl Zan: 'Identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione'. Si tratta di una definizione che intende rendere autonomo il genere dai sessi.
Il genere – e con questo termine si indicano ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini – viene ad assumere una propria, indipendente consistenza, sino a configurare un’identità. È bene precisare che quando affermo che i sessi sono due non metto minimamente in discussione il fatto che singoli individui non si ritrovino a corrispondere al sesso con cui sono venuti al mondo o che non accettino l’orientamento sessuale che a quel sesso di norma si associa, ovvero siano trans o omosessuali. Intendo solo dire che sempre alla sessuazione umana si fa riferimento. Invece con 'identità di genere' si vuole emancipare il genere dal sesso, affermare che il sesso è una pura esperienza interiore, personale, che prescinde dal vincolo della corporeità (e la corporeità umana è fenomeno inestricabilmente psicofisico e relazionale non riducibile alla sola biologia, benché la biologia non sia il male assoluto, come si tende troppo spesso a sostenere, tutt’altro: basta che non la si usi in senso deterministico), anzi, questa viene condizionata, performata dalla libera autonoma percezione, dal sentimento di sé.
Ma come si esprime questa intima, puramente soggettiva percezione, risultato di un confronto tra il sé e un qualche criterio esterno? Attraverso i segni del genere, in questo caso abbigliamento, eloquio, linguaggi del corpo. Il 'genere', che in origine indicava ruoli e funzioni sociali condizionanti, qui si riduce alle sole manifestazioni esteriori, ovvero alla parata degli stereotipi: proprio quelli che le donne hanno combattuto e continuano a combattere. Bel paradosso!
È stato il movimento di liberazione delle donne a mettere in campo il concetto di 'genere' per criticare e cambiare l’ordine tradizionale che si spacciava per naturale e quindi immutabile perché sosteneva che gli uomini e le donne hanno, per natura, una funzione sociale definita dal loro sesso. Il termine 'genere' è stato usato per indicare quella serie di comportamenti, ruoli, stereotipi, che nei secoli sono stati attribuiti al sesso femminile e al sesso maschile. Le donne erano destinate a certi ruoli e funzioni perché erano legate alla natura invece che alla cultura, al sentimento invece che alla ragione e, poiché detenevano la potenza della procreazione, erano obbligate alla maternità e alla cura, mentre agli uomini, detentori della razionalità e della cultura, spettava occuparsi della vita economica e della politica. Per liberare le donne da questa vincolante identificazione con tali ruoli e funzioni si è iniziato a distinguere il sesso femminile dal genere femminile.
Quindi 'l’identità di genere', in origine, significa tutto ciò che la cultura e la storia hanno costruito addosso alle donne (e anche agli uomini) elaborando precise norme di vita. Oggi tali norme vengono definite 'stereotipi di genere' e sono contrastati per consentire alle donne di essere libere di scegliere la vita che desiderano.
Ora, il termine 'genere', soprattutto nel mondo anglosassone, ha cominciato quasi insensibilmente a slittare di senso. Nello sforzo di liberarsi da una storia di oppressione e di dipendenza si è arrivate, da parte di alcune correnti femministe, a voler cancellare la 'donna', identificata totalmente con quella storia, come se il sesso femminile fosse la parte 'negativa' dell’umanità. Così in area anglofona il termine 'gender' ha occupato sempre più spazio fin quasi a sovrapporsi al sesso, e infine a soppiantarlo. Questo è avvenuto in concomitanza con l’imporsi, nel dibattito culturale e accademico, di una linea di pensiero che ha visto protagonista indiscussa la filosofa americana Judith Butler, che ha spinto il potere trasformativo della storia e della cultura – cioè dei codici linguistici, sociali, culturali – sino al punto di rendere il sesso biologico (potremmo dire la corporeità sessuata) effetto di un ordine discorsivo, di una pratica linguistica performativa. La teoria butleriana, pur nata all’interno dell’universo femminista, era volta a dare piena dignità e piena uguaglianza di diritti alle minoranze gay, transgender, queer.
In questa visione, infatti, il sesso, la dualità sessuale, il binarismo e l’eterosessualità non solo scompaiono ma sono circondati da un alone di negatività perché rappresenterebbero un ordine binario ed eterosessuale che relega chi non vi rientra in uno stato di permanente marginalità. La portata dell’operazione culturale è evidente: se vogliamo l’uguaglianza bisogna eliminare alla radice quella norma che rende anomali e marginali alcuni: i gay, i transessuali, i transgender, gli intersex... Il gender è la via: se non diamo alcuna consistenza o senso alla differenza sessuale sfuma anche la differenza tra una donna di sesso femminile o uomo di sesso maschile e una/un transgender, vale a dire un uomo non operato e non in transizione che si dichiara donna, o una donna che si dichiara uomo. Sono equivalenti, possibili varianti di identità che non hanno più alcun referente corporeo sessuato. Il 'discorso' del gender mira a eliminare i presupposti antropologici alla base delle varie forme storiche di identità sessuali, sostituendoli con l’indefinita pluralità delle singole esistenze. Nasce da qui lo sconcertante allungarsi delle sigle Lgbtqi...
L'uso del termine 'identità di genere' nel testo del ddl è carico di questa densa storia teorico-politica, e presenta perciò un deciso risvolto programmatico di progetto politico-culturale. Finché si resta nel campo del libero confronto delle opinioni, ogni teoria deve essere esposta e discussa senza limitazioni di sorta, anzi, investendo più ampiamente l’opinione pubblica che, come stiamo verificando, è in grande misura ignara di queste tematiche e delle loro implicazioni. Ciò che invece non risulta accettabile è l’inserimento in una legge di rango penale di una formula che è il condensato di teorie controverse, discusse e discutibili, teorie che per questa via ottengono uno statuto di indiscussa 'verità'. Qui si annida il rischio, sottolineato da tanti, di compromettere la libertà di espressione e di trasformare la giusta esigenza di promuovere nelle scuole il rispetto delle diversità in esercizio di indottrinamento.
Nei Paesi in cui si è accolta sul piano normativo la dicitura 'identità di genere' si sono verificati fenomeni piuttosto spiacevoli in vari ambiti, dalla limitazione della libertà di espressione agli attacchi ai diritti delle donne. La mia domanda è: perché per porre fine alle discriminazioni si deve annullare la differenza sessuale? E perché la 'donna' deve scomparire affinché ci sia libertà? Trovo che c’è qualcosa di profondamente misogino in questa volontà di negare e cancellare il sesso femminile e in questa idea di libertà. Bisogna operare su tutti i piani, culturale, sociale e anche penale perché le identità transessuale e omosessuale siano riconosciute e rispettate, nella loro diversità. Non siamo tutti uguali. Uomini e donne sono uguali ma differenti. E questo dovrebbe valere anche per gli orientamenti sessuali e per i vari modi di esistenza sessuale. Affermare che l’umanità è costitutivamente duale è un modo per riconoscere tutte le altre differenze. Non per cancellarle.