Ucraina. Ma commuoversi non basta ascoltiamo le domande dei figli
C’è una strana aria: la guerra si respira più della pace. Qualche sera fa, mia figlia, all’improvviso, chiede 'Papà cosa succede se comincia la guerra?' E il fratellino rincara. 'Papà ho paura, anche noi andiamo in guerra?'. Domande che non lasciano respiro. Per due anni abbiamo definito la pandemia una 'guerra', chiamati ad affrontare un virus che, come scrive ancora il piccolino in un tema alle scuole elementari, è un «mostro che non ci fa scambiare merendine e non ci fa alzare dai banchi per aiutare i compagni». E ora una guerra aperta, ad alta intensità, è scoppiata in Europa, violenta e drammatica.
Nei tg scene di carri armati, missili supersofisticati, e l’ombra di armi nucleari con nomi strani e impronunciabili. Vediamo alunni che nelle scuole ucraine invece di fare lezione si addestrano a eventuali attacchi, con i loro genitori, per scampare il pericolo (troppo spesso i nostri bambini 'giocano alla guerra' sotto i nostri occhi fino a impugnare coltelli e pistole vere).
La socializzazione fondamentale, che passerebbe per la scuola e per le relazioni amicali, oggi è ridotta all’osso e i bambini familiarizzano piuttosto con l’idea di un mondo sotto l’assedio delle armi in cui domina la cultura della sopraffazione e della morte. Le domande non si arrestano, tipico dei bambini: «Papà, cosa succederà? ».
Domande che provocano altre domande tra adulti che cercano possibili risposte. Ci siamo forse adagiati sui miti del- la democrazia e della libertà, che, date spesso per scontate, reclamano invece una continua conquista e la risposta alla coscienza del sangue versato dai nostri nonni, neanche tanto tempo fa. Siamo adulti che dal divano assistono a 'guerre a pezzi' sparse nel mondo? Siamo spettatori, direbbe Bauman, il cui impegno sociale, politico (quando c’è!) «quasi mai va abbastanza oltre da colpire le radici del male »? Di fatto, l’Italia è tra i più importanti Paesi produttori di armi al mondo e il suo Pil sembrerebbe resistere anche grazie a quella che, con linguaggio duro e realista, si definisce industria bellica. Una industria che oggi preme sul governo per l’aggiudicazione di parte dei fondi del Pnrr, questione di cui, in maniera imbarazzante, si sente poco e niente parlare. Le industrie leader nella produzione e nelle forniture militari hanno continuato a fare affari nonostante la crisi economica e la pandemia ancora in corso. Il Papa denuncia che ci sono più armi oggi che durante la 'guerra fredda', ma l’allarme resta inascoltato, e inevasa è la sua richiesta ai governi di affrontare la propria responsabilità nella vendita delle armi.
Forte viene da Francesco il messaggio sui profondi benefici che il perseguimento di un reale processo di disarmo internazionale può portare allo sviluppo di popoli e nazioni, anche per le enormi somme che potrebbero essere destinate alla salute, alla scuola, alle infrastrutture, alla cura del territorio. Da secoli ormai la filosofia sociale cristiana chiede di affermare la forza del diritto rispetto al diritto della forza, ma ogni appello cade nel vuoto. E ora in Ucraina si combatte. Chi paga il prezzo più alto? I bambini, i giovani, chiamati non solo a subire gli errori ma anche a sanarli per sopravvivere. La storia ci chiede una nuova resistenza civica che accantoni gli atteggiamenti militareschi e violenti e si faccia esercizio costante e capillare di democrazia, di educazione alla libertà, di avvio di un processo di pacificazione nonostante tutto e tutti. Di pacificazione intergenerazionale.
L’«andrà tutto bene» di ieri nel deserto sociale di oggi mostra come inefficace sia ogni intenzione che non sia sostenuta dalla convinzione di tutti e ciascuno a un’inversione e conversione culturale, spirituale. In questo momento così delicato della nostra storia le domande dei nostri figli sono vitali, l’incapacità di dare risposte più che un fallimento è un monito a fare presto, a fare bene. Di certo quelle domande non vorremmo mai ascoltarle, ma la realtà va guardata in faccia e la realtà oggi è che la guerra è tra le paure dei nostri figli, peggio del buio della notte in cui una mano sul viso basta a rasserenarli. Poi ancora una domanda: 'Papà, ma non possono parlarsi?' La disarmante semplicità delle domande dei bambini alla quale corrisponde la complessità di risposte che si traducono, spesso, in imbarazzante silenzio. E su una cosa non si può mentire: siamo tutti in guerra, siamo tutti complici di vite spezzate, città distrutte seppur a migliaia di chilometri distanza. Questo va spiegato con forza.
Non basta più commuoversi ma bisogna muoversi, bisogna anche riunirsi per scelta di pace e al cospetto del mondo, come ieri in piazza a Roma e in tanti altri luoghi, come a Mosca, sfidando gli arresti di regime. Bisogna compiere gesti personali di preghiera e di partecipazione, come in tanti faremo il 2 marzo – Mercoledì delle Ceneri per la Chiesa – accogliendo l’invito del Papa al digiuno. Perché la paura non si trasformi in angoscia e i nostri figli non restino come noi spettatori. Non possiamo lasciare ancora a loro il compito più difficile.