Sono passate appena tre settimane dall’annuncio ufficiale, comunicato da Gianni Letta presso la sede dell’Associazione stampa estera: il 17 marzo prossimo, anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, solo per quest’anno centocinquantenario, sarà festa nazionale. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio aveva parlato di una decisione sancita «di comune accordo» (fatto ultimamente alquanto raro) tra il capo dello Stato e il capo del governo. Entrambi, dunque, avevano concordemente stabilito «che le scuole e gli uffici resteranno chiusi per onorare questo importante evento». In aggiunta, veniva segnalato anche un altro appuntamento speciale: il 2 giugno, in occasione della festa della Repubblica, 26 capi di Stato dei Paesi europei, degli Usa e della Russia e di tre nazioni sudamericane ad alta presenza di immigrati di origine italiana, saranno tutti insieme a Roma per festeggiare con noi un compleanno di particolare significato storico. Le parole, la sede, il contesto: tutto sembrava non lasciare dubbi sul desiderio condiviso di far vivere al Paese ventiquattr’ore speciali, diverse da quelle che si susseguono quasi senza requie ormai da un anno a questa parte. Giornate troppo spesso all’insegna dello scontro e della divisione sempre e comunque, su tutto e a ogni costo, per scelta estemporanea o per partito preso. Uno scenario che – pur augurandoci di sbagliare – rischia di riprodursi anche stavolta, dopo che numerosi voci si sono alzate per proporre una ricorrenza sì, ma senza vacanza. E dopo che si è aperta l’ennesima diatriba sulla festività di serie A o di serie B. Certamente, in questo caso specifico, lo si è fatto sull’onda di intenzioni lodevoli, sulla scorta di argomenti indubbiamente fondati e di motivazioni robuste: ad esempio quelli che rimandano alle condizioni della nostra economia o, magari, come nel caso della scuola, all’opportunità di dare spazi e contenuti a una riflessione guidata sul valore della ricorrenza da festeggiare. Non ci sfugge neppure, sia chiaro, che tra quanti spingono per declassare o per ridimensionare nei fatti l’evento, si agitano corposi sentimenti visceralmente antiunitari, coltivati in ambienti e aree politiche da sempre refrattari a ogni sbadieramento del tricolore. Ma fatta la debita tara delle strumentalizzazioni in atto, non abbiamo difficoltà a riconoscere sia la buona fede sia le ottime giustificazione di quanti chiedono un ripensamento sulle modalità di celebrare il 'Giorno dell’Italia'. Il fatto però è che, a questo punto, non si riuscirebbe davvero a comprendere più il senso residuo di una festività, straordinaria per la sua unicità e tuttavia dimezzata nel suo svolgimento. Se il messaggio che si vuole trasmettere al Paese è di fermarsi, per un solo giorno nella vita di questa generazione, a considerare la strada fatta e a meditare sul cammino che ancora ci attende per cementare meglio la costruzione risorgimentale, quale contributo può venire da una sosta solo accennata o limitata a simbolici spot seminati nel tran tran quotidiano? Visti, poi, i virulenti semi di divisione e il clima di conflitto permanente che tormentano le cronache del nostro Palazzo, dare nella circostanza attuale un segno di concordia, almeno sulla scelta di fondo, sarebbe quanto meno un buon viatico allo svolgimento del 'fantastico giovedì' che ci attende. I nostri concittadini più avanti con gli anni ricordano certamente il celebre taglio di sette giorni di vacanza deciso all’insegna dell’'austeriy' e della necessità di lavorare di più dal governo di Giulio Andreotti nel 1977 (ma l’Epifania fu poi reintrodotta nell’85 e il 2 Giugno nel 2001). Le chiamammo, da allora in poi, le 'festività soppresse'. Sarebbe surreale trovarci ora davanti a una festività soppressa all’atto di essere istituita.