Dopo la Consulta. Suicidio assistito, ma c'è la resilienza del "buon medico"
Caro direttore,
nelle ultime settimane molte voci si sono levate sui grandi temi della vita e della morte a commento della depenalizzazione condizionata dell’aiuto al suicidio, usando spesso in modo disinvolto e talora pretestuoso parole alte: diritti, dignità, libertà, autodeterminazione, dovere morale. Dietro questi concetti si cela la coscienza e la responsabilità di ogni individuo, specie se credente. Per comprendere appieno la portata di molte affermazioni tuttavia occorre confrontarsi con chi vive questi temi sulla propria pelle: da una parte i malati di patologie gravi e irreversibili che vivono sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili (assieme alle loro famiglie), dall’altra i medici che per professione (missione o vocazione, direbbe un credente) hanno il compito di tutelare la vita, curare e sedare il dolore grazie alla scienza e al sano sviluppo delle tecnologie. Tutto ciò nella cornice di una 'prassi clinica' della medicina che è esercizio concreto a favore dell’uomo, specie dei più deboli e fragili, mai superficiale e sempre capace di autocritica.
Entrare nel dramma di chi vive queste esperienze è cosa ardua e molto delicata, richiede rispetto per evitare affermazioni retoriche o apodittiche, ma occorre constatare che la stragrande maggioranza delle situazioni cliniche ordinarie è ben presidiata da uno stuolo di medici che si dedicano con competenza, costanza e umanità, specie sulle frontiere cliniche più complesse, facendo tutto il possibile e garantendo un rapporto di fiducia empatico e autentico. Un rapporto tuttavia non esente da sconfitte, errori, irrigidimenti, talora al punto da incrinare la stessa relazione medico-paziente. Senza avventurarmi in percorsi filosofici, tento tuttavia di riassumere i capisaldi della professione medica che per 40 anni ho vissuto sul campo (nelle cura di malati ricoverati o assistiti sul territorio).
In primis la battaglia 'per' e 'con' il malato per garantire a tutti una buona cura, con lo sguardo lucido e impietoso verso tutte quelle condizioni che ne calpestano la dignità (spesso di ordine economico, burocratico o di organizzazione sanitaria, oggi in costante aumento). Un’azione che si esercita nella responsabilità e nel dovere morale di stare accanto al malato, di ascoltare le sue sofferenze cercando di intuire quelle indecifrabili, sempre sulla soglia della sua libertà di scegliere e di decidere all’interno di una relazione professionale, ma prima ancora umana.
Tutto questo oltre alla vicinanza e all’ascolto della famiglia e di quanti lo assistono, come indicatori qualificati per comprenderne appieno tutte le pieghe del quotidiano della malattia (spesso la cartina al tornasole dell’autentico vissuto del paziente). E ancora: la fatica da sostenere quando ci si scontra con il tema del limite (della vita, delle scelte terapeutiche), l’arrendersi a una medicina solo palliativa per il bene del malato, la sconfitta quando si intravvede che la morte prende il sopravvento e diventa inarrestabile. In sintesi: cercare di esserci sempre, mai abbandonando il malato al suo destino, con una presenza che oggi sempre più viene richiesta o addirittura pretesa, di persona o attraverso l’esplosione dei mezzi mediatici; e tentare di infondere coraggio, positività e speranza anche nei momenti più bui.
Tutto questo mi ha insegnato l’esercizio di una professione a contatto con la bellezza e la fragilità dell’uomo, con un costante arricchimento reciproco, nella sfida contro la sofferenza e la morte, lungi da deliri di onnipotenza: una qualità e uno stile profondamente umani, una cura verso tutti indistintamente, prima ancora che vissuta da credente. Nello sconcerto di una classe medica oggi sempre più pressata direttamente o in modo subdolo verso richieste di soluzioni tecniche radicali, anche a disprezzo della vita, è urgente recuperare i valori di una buona medicina che non abdica al compito originario di pietà e rispetto nella relazione di cura, coniugando con intelligenza e cuore scienza e coscienza, ma sempre a favore della vita. Un compito inevitabile per affrontare situazioni disperate, arginare richieste improprie e contrastare il crescente burn out del medico.
Presidente Associazione medici cattolici di Milano