Tecnologia. L'università sia communitas di esperienza e discussione
Non so se il Covid abbia spento la luce definitivamente sull’Università. Rifacendomi al dibattito aperto da Gustavo Piga e Giuseppe Lorizio su queste colonne, so però cosa la didattica di emergenza, durante la pandemia, abbia consentito di fare. Due cose. La prima. Ci ha fatto comprendere una delle logiche che caratterizzano la comunicazione digitale, ovvero il superamento della centralità del luogo. Non occorre più essere nello stesso luogo in cui si trova chi parla: lo sapevamo fin dai tempi della televisione, ma ora la didattica in remoto d’emergenza ci ha fatto comprendere che senza costi questo può valere anche per la formazione, in tempo reale, in forma interattiva. Puoi seguire da casa, puoi evitare di muoverti.
Risparmi fatica, abbatti i tempi morti, ti consenti di fare anche altro. La seconda. Ci ha fatto capire il senso di un’altra caratteristica della comunicazione, prima di massa e ora anche digitale, ovvero il fatto che essa è riproducibile tecnicamente. Nella didattica in remoto d’emergenza, significa possibilità di registrare una sessione di lavoro didattico e lasciarla a disposizione di chi ne voglia fruire. Non solo puoi seguire da casa, ma proprio perché i materiali sono riproducibili tecnicamente puoi guardarli quando vuoi. Credo che un’analisi seria del pro- blema vada impostata a partire da qui. Non serve stracciarsi le vesti, piangere sulla morte dell’Università, tuonare contro i ragazzi di oggi che non avrebbero più la nostra passione per il sapere.
La domanda è semplice. Perché dovrebbero venire in aula? Cosa dovrebbero trovarci che non si possa fruire anche a distanza e on demand? E visto che la possibilità tecnica di consentire loro di non venire in aula esiste – la pandemia lo ha dimostrato – quali ragioni dovrebbero sostenere l’eventuale scelta dell’Università di non garantire più loro questa possibilità? La risposta passa da due ordini di considerazioni. In primo luogo, occorrerebbe che ci si preoccupasse di conoscere gli studenti. Il non frequentante non è un fannullone, non è qualcuno che scelga per comodo di non venire in aula. È qualcuno che per ragioni storiche, culturali, professionali, non riesce a venire in aula, o preferisce trovare altri modi di accostarsi alla formazione. Invece di irrigidirsi, l’Università dovrebbe trovare strade diverse per l’organizzazione della didattica.
La ricerca parla di 'hyflex solution', ovvero una didattica mista e flessibile, orari diversi, modalità diverse, senza chiudersi entro soluzioni standard. In secondo luogo, servirebbe riflettere su cosa significhi fare formazione oggi nella società della conoscenza, ovvero in una società in cui le informazioni sono dappertutto e l’accesso a esse non è più necessariamente mediato dalle istituzioni preposte alla trasmissione del sapere. L’Università dovrebbe chiedersi cosa sia la didattica e cominciare a valutare i professori proprio anche in relazione alla loro didattica. Se fare didattica significa trasmettere contenuti, si capisce bene che ai contenuti si può accedere anche da casa, e in differita.
Torniamo alla lezione della pandemia: cosa c’è nella didattica universitaria che non sia fruibile anche a distanza e che non sia riproducibile tecnicamente? Questa è la domanda vera da farsi. La risposta è semplice. L’esperienza. L’Università deve poter essere un’esperienza, ovvero: uno spazio fatto di vissuti, anche emotivi; un luogo in cui la discussione scientifica e non la trasmissione siano al centro; una realtà di maturazione delle professionalità nel confronto tra pari; un’occasione per trovare nei docenti dei 'career consultants' ma, mi verrebbe da dire, soprattutto degli adulti significativi.
In ultima istanza una compagnia, una communitas di docenti e studenti, né più né meno che quello che la sua originaria natura fin dal Medioevo indica. La sfida è di pensare a questa possibilità dentro la complessità dell’oggi, armonizzandola con i tempi della società dell’accelerazione, senza demonizzare la tecnologia ma liberandone le potenzialità umanizzanti. Solo così, prendendo le cose con serietà, potremo andare oltre lo sterile chiacchiericcio su cosa sia meglio, se la presenza o la distanza.
Università Cattolica Presidente della Società italiana di Ricerca sull’Educazione mediale