Sono un uomo ferito. / E me ne vorrei andare / E finalmente giungere, / Pietà, dove si ascolta / L’uomo che è solo con sé. / […] Una traccia mostraci di giustizia. / La tua legge qual è? / Fulmina le mie povere emozioni, / liberami dall’inquietudine. / Sono stanco di urlare senza voce. (Giuseppe Ungaretti, La pietà)
Quando una persona, una comunità, una organizzazione, una corrente di pensiero viene catturata dall’ideologia, arriva non solo a negare l’evidenza, ma, quasi sempre, a inventare fatti, storie, parole. Se è vero che non c’è giustizia senza misericordia, Giobbe ci dice che non può essere vera neanche una misericordia senza giustizia. Ogni dono strumentalizzato diventa veleno.
Ogni generazione produce il suo scarto tra le domande nuove e difficili delle vittime e le risposte insufficienti degli amici di Giobbe. Qualche volta, questo scarto è diventato una feritoia dove abbiamo appoggiato lo sguardo per cercare di scorgere un orizzonte umano più largo e un cielo più alto. Molte altre volte, lo spazio dello scarto viene negato e annullato, cancellando le domande dolorose e feconde dei poveri. Per sperare di incontrare “Giobbe e i suoi fratelli” dovremmo, semplicemente, imparare ad abitare, in silenzioso ascolto, questo inevitabile vuoto. Potrebbe fiorirvi una solidarietà nuova con il nostro tempo; forse, finalmente, la fraternità.
Elifaz di Tema, nel suo secondo attacco a Giobbe, di fronte all’ostinazione con la quale Giobbe si dichiara innocente e nega la teologia “retributiva” degli amici, abbandona il ragionamento astratto (se soffri devi essere peccatore e malvagio), e arriva ad accusarlo di gravi crimini specifici, concreti, storici, attribuendogli i peggiori delitti: «Pignoravi per niente i beni al tuo fratello, strappavi il vestito all’ignudo, non davi acqua all’assetato, e negavi il pane all’affamato. Come uomo potente … rimandavi le vedove a mani vuote, spezzavi le braccia degli orfani» (22, 6-9). Ma Elifaz non è ancora appagato, e accusa Giobbe di aver commesso questi crimini «per niente» (22,6), senza alcun motivo, “gratuitamente”. Una gratuità opposta a quella vera di Giobbe, che il Satana aveva fatto oggetto della sua scommessa con Dio (: 1,9). La realtà viene interamente ribaltata: Giobbe il giusto «per niente», per pura gratuità, è ora accusato di essere un potente malvagio capace di cattiveria gratuita, un’accusa peggiore di quella del Satana – che metteva in dubbio solo la gratuità di Giobbe, non la sua giustizia.
E così, continuando la sua inquisizione, Elifaz arriva a evocare persino la condizione perversa dell’umanità prima del diluvio (22,14-20). Giobbe come Lamek. Giobbe come Caino.
Elifaz sa che quei delitti efferati Giobbe non li ha mai commessi. Noi sappiamo (dal Prologo del libro) che Giobbe era un uomo giusto e onesto, l’uomo più retto sulla faccia della terra («sulla terra non c’è un altro come lui»: 2,3). Come Noè, il salvatore dell’umanità dal diluvio. Anche Elifaz e gli altri amici sapevano tutto questo. Eppure ribaltano completamente la realtà. Perché?
Qui ci troviamo di fronte a una descrizione perfetta di cosa sia una ideologia. Quando una persona, una comunità, una organizzazione, una corrente di pensiero viene catturata dall’ideologia (che, non dimentichiamolo, è sempre idolatria: si adorano feticci fabbricati dalle proprie mani), arriva non solo a negare l’evidenza, ma, quasi sempre, a inventare fatti, storie, parole. All’inizio l’inventore di questa realtà virtuale riesce ancora a distinguere i fatti inventati da quelli reali; ma arriva presto il momento in cui sono gli stessi inventori che iniziano a credere nella realtà che hanno creato.
L’ideologia ha la sua prima forza in questa capacità di inventare una realtà diversa e poi credere nelle proprie invenzioni. Una forza che la rende inconfutabile e invincibile sul piano del discorso e del dialogo – Giobbe ce lo sta mostrando. Si costruiscono artificialmente storie, eroi, vittime, che un giorno escono dalla fiction e diventano reali per chi li ha prodotti. Così la persona malata di ideologia vive realmente in un altro mondo, vede altre cose, abita una realtà parallela. La storia continua a mostrarci mostri ideologici, che finiscono per divorare le persone reali e quasi sempre anche i loro stessi autori. Ogni pensiero ideologico si presenta sempre come una uscita progressiva dalla ambivalente realtà della vita vera di tutti per entrare in un’altra diversa più semplice, con risposte perfette a tutte le domande.
Giobbe è invece l’anti-ideologo, perché tutta la sua fatica è restare ancorato alla verità propria e della terra, senza cadere anche lui dentro l’ideologia che, sistematicamente e tenacemente, i suoi amici gli propongono come via di uscita dal buco nero in cui è precipitato.
Ciò che nei dialoghi di Giobbe è tremendo e meraviglioso è la sua ostinazione a non accettare neanche la misericordia di Dio che gli viene sistematicamente ripresentata dagli amici («Se ti rivolgerai all'Onnipotente, verrai ristabilito»: 22,23), perché sente che non incontrerebbe Dio ma una ideologia, un idolo. Anche la misericordia ha bisogno di verità. Non è misericordioso chi perdona una colpa inesistente o creata ad arte per suscitare nell’altro una richiesta di perdono. Accettare questa misericordia significherebbe soltanto entrare nella stessa ideologia di chi la propone. Le offerte di misericordia per rimettere colpe inventate, sono forme comuni e sottili di dominio dei potenti sui poveri e sulle vittime, di cui la storia ci offre un ampio tristissimo ventaglio. Giobbe non chiede né vuole questa misericordia, anche a nome di chi, prima e dopo di lui, l’ha dovuto fare.
Quanti poveri, quante donne, hanno dovuto chiedere scusa per delitti mai commessi, implorare perdoni per peccati mai fatti, addossarsi colpe al posto di altri che dovevano restare coperti e ‘innocenti’. Giobbe continua a gridare anche per loro, per tenere viva la loro memoria cancellata e dare eco alle loro urla strozzate. Le grida degli innocenti non vanno ammutite con offerte di falsa misericordia: il più grande atto di misericordia che ci viene chiesto è lasciarli continuare a gridare, nell’attesa che qualcuno, o Dio, le ascolti e le raccolga. Forse non esiste un atto di non-misericordia più grave di chi impedisce al povero di urlare, convincendolo di essere colpevole.
Se è vero che non c’è giustizia senza misericordia, Giobbe ci dice che non può essere vera neanche una misericordia senza giustizia. Ogni dono strumentalizzato diventa veleno, e avvelena le relazioni.
Giobbe non vuole il patteggiamento della pena, vuole ottenere unicamente la sua assoluzione piena, e la “condanna di Dio” per il suo comportamento ingiusto verso di sé e verso i tanti innocenti del mondo. Così, capitolo dopo capitolo continua a chiedere solo una cosa: poter incontrare Dio, alla pari, e farsi spiegare le ingiustizie della terra: «Potessi sapere dove si trova, andrei fino al suo trono» (23,3).
Giobbe – è qui la grandezza sconvolgente di questo libro – cerca un volto di Dio che accetti di ammettere le sue colpe, e che sia disposto a poter perdere in tribunale nel confronto con la giustizia dell’uomo. Ma può esistere un tale Dio? Quale Elohim è disposto ad accettare un contraddittorio con gli uomini, e poi sottomettersi al verdetto di colpevolezza? «Davanti a lui esporrei la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni» (23,4).
Ma Giobbe non trova il trono di Dio, non vede Elohim sulla sua terra, né lo intravvede arrivare sulla linea dell’orizzonte: «Ma se vado a oriente, egli non c'è, se vado a occidente, non lo sento. A settentrione lo cerco e non lo scorgo, mi volgo a mezzogiorno e non lo vedo» (23,8-9). La sua è una “notte di Dio” perfetta. E continua a cercarlo, oltre le chiacchiere dei suoi amici. E così la sua onesta notte prepara un’alba per l’uomo. I cieli troppo luminosi, chiari, limpidi finiscono inevitabilmente per abbuiare le terre umili, sassose e aride dei poveri.
Ed a questo punto che arriva un colpo di scena. Giobbe usa le stesse immagini di peccato e di malvagità che Elifaz gli aveva attribuito (pane e acqua negati, vedove, orfani, pegni, vestiti …), ma per donarci un quadro, realissimo e verissimo, delle vittime dei crimini dei potenti: «Ecco, come onagri nel deserto escono per il loro lavoro; di buon mattino vanno in cerca di cibo, la steppa offre pane per i loro figli. Mietono nel campo non loro, racimolano la vigna del malvagio. Nudi passano la notte, senza vestiti, non hanno da coprirsi contro il freddo. … Sopportando la fame portano i covoni. Sulle terrazze delle vigne frangono le olive, pigiano l'uva e soffrono la sete» (24,5-11).
I poveri lavorano come asini selvatici (onagri): portano sulle loro spalle covoni di grano per i padroni e loro muoiono di fame, pigiano olive e uva e loro bruciano di sete. Il povero è costretto a dare in pegno ai suoi creditori il suo mantello, e invece di riaverlo indietro la notte per coprirsi viene lasciato nudo lungo le strade (Esodo, 22,26). Sono troppe le persone diventate atee di fronte alle risposte insufficienti alla loro domanda sull’ingiustizia e sul male del mondo.
Elifaz, con la sua teo-ideologia, aveva inventato un Giobbe potente e crudele che perpetrava angherie e delitti verso poveri immaginari. Giobbe, vero povero e innocente, guarda lo stesso mondo di Elifaz, ma lo vede diversamente. Si mette, solidale, dalla parte delle vittime, e dice: «La gente delle città grida, la gola dei feriti implora. Dio non sente preghiera» (24,12).
Visto dal mucchio di letame di Giobbe, il mondo non può non apparirci come lo spettacolo di una grande, sistematica, universale ingiustizia. I poveri continuano a dormire di notte senza mantello, sotto le serrande chiuse delle vetrine dell’alta moda. Giobbe muore di fame, e accanto i suoi amici filosofano sul cibo. E torna sempre più forte la tentazione di costruirci nuove e sempre più sofisticate ideologie per zittire i poveri, non vederli, convincerci e convincerli che sono solo colpevoli e che meritano la loro triste sorte. Giobbe continua la sua lotta, generazione dopo generazione. E attende risposte solidali e vere, non falsa misericordia. Dagli uomini, da noi, e da Dio.
l.bruni@lumsa.it