Sul confine e oltre / 1. Via dalla distruzione creatrice
La solitudine nel nostro tempo cresce insieme al nostro desiderio di comunità, che cerchiamo di soddisfare con modalità e strumenti che finiscono, troppo spesso, con l’accrescere quel desiderio. La società di mercato ha bisogno di individui senza legami forti e senza radici troppo profonde, e ha i mezzi economici e politici per crearli sempre più così. Le persone con relazioni interpersonali significative, con una vita interiore coltivata, sono sempre consumatori imperfetti e difficili da gestire. Non capiamo il successo straordinario che il mercato capitalistico sta raccogliendo negli ultimi due-tre decenni, se non poniamo sufficiente attenzione al suo principale dispositivo: la distruzione di beni liberi non di mercato che vengono sostituiti da merci, che mentre cercano di rispondere alla carestia dei primi beni (e a modo loro ci riescono) continuano ad alimentarla.
La nuova cultura del lavoro e del consumo produce individui con relazioni sempre più frammentate, e poi grandi aziende multinazionali offrono nuove forme di comunità sulla rete che mentre accompagnano le nostre solitudini non fanno altro che aumentare il numero delle nostre ore solitarie trascorse di fronte a telefoni, computer, tv. Il Pil cresce grazie al nostro tentativo di rispondere col mercato alle solitudini generate dallo stesso mercato - e così la quota di reddito che le famiglie spendono oggi in telefoni, ricariche e canoni internet, ha superato quella spesa per il cibo.
Le conseguenze di questa nuova forma di "distruzione creatrice" – che distrugge beni liberi e crea merci con un prezzo – sono gravemente sottovalutate. Pensiamo all’esclusione sociale e alla povertà. Le comunità tradizionali erano generalmente beni comuni gratuiti, accessibili anche ai poveri, in certi casi soprattutto ai poveri, che compensavano i loro minori beni economici con maggiori beni relazionali. I poveri spesso non erano poveri di tutto: avevano ricchezze comunitarie, di festa, che li facevano meno poveri. La tendenza forte delle nuove povertà del terzo millennio è la creazione di poveri che sono poveri in tutto. Quando eravamo bambini, ad esempio, l’organizzazione sociale di città e campagne ci (quasi) impediva di diventare obesi: tutto era movimento naturale e necessario. Le nostre città e la nostra organizzazione sociale ed economica producono (quasi) naturalmente obesità. Ma poi, con il colpo di genio collettivo più impressionante della nostra era, il capitalismo ha inventato tutto un business di palestre, piscine, fitness, alimenti speciali, allo scopo di combattere – semplicemente pagando – quell’obesità che la società di mercato crea. E così i bambini (e gli adulti) più poveri sono spesso anche quelli più obesi, perché non possono accedere alle "cure" che il mercato vende.
Crescere e fare profitti grazie alla risoluzione dei danni che crea nel fare altri profitti (e alimentare rendite), è la grande "innovazione sociale" del capitalismo del nostro tempo. Il meccanismo di questa distruzione creatrice è molto radicale, e si applica primariamente alla stessa comunità. Le comunità tradizionali erano solo in minima parte elettive: sceglievamo (a volte) la moglie o il marito, qualche amico, non i genitori, né i fratelli, né i figli, né i vicini di casa, né gli altri abitanti del nostro villaggio. Tutti questi compagni erano eredità, destino, soprattutto corpo, carne, sangue, con tutte le loro tipiche ferite e benedizioni.
Le comunità post-moderne sono soltanto elettive: scegliamo quasi tutto, vorremmo scegliere tutto. Soltanto i legami deboli, disincarnati e scelti ci piacciono; e così ci scordiamo che le persone sono vive e vere perché oggi sono diverse da quelle che abbiamo scelto ieri. La buona fioritura di una vita è restare fedeli a tutto ciò che è cambiato, che continua a cambiare e che non abbiamo scelto nelle persone che amiamo – ogni patto matrimoniale è un reciproco sì per una fedeltà a ciò che l’altro diventerà, un’alleanza per accogliere e amare il non ancora (di sé e dell’altro) che non conosciamo e non controlleremo (e invece "sei cambiata", "non sei più l’uomo che ho sposato" sono le parole dei nostri abbandoni, come se non avessimo sposato anche quel "cambiamento" e quel "non essere più").
Un posto importante in questo ragionamento lo occupa il tema dell’autenticità. Nel XX secolo l’autenticità – sincerità, genuinità – era anche una dimensione del mercato. Le imprese, le cooperative, i negozi, le banche erano faccende umane a tutto tondo, con gli stessi vizi e le virtù della vita. E quindi genuine come la vita. Poi abbiamo iniziato a costruire una cultura aziendale e di marketing sempre più artificiale, a costruire una pubblicità dove si presentano beni che tutti sappiamo non essere quelle merci che poi andremo a comprare, a vendere prodotti finanziari artificialissimi e finti, a relazionarci con colleghi, clienti, fornitori e capi seguendo i protocolli e gli schemi di incentivo. Una commedia dell’arte dove ciascuno interpreta il suo ruolo grazie alla maschera che gli copre il volto – e così non vediamo più il rossore sulle guance e le lacrime negli occhi. Una certa artificialità e non sincerità hanno sempre fatto parte dell’ethos del mercato – chiunque frequentava le fiere e i mercati di ieri entrava dentro un mondo di venditori seduttori che parlavano di proprietà fantastiche di prodotti miracolosi. Ma ne eravamo coscienti, quella artificialità faceva parte del folklore e dei riti di quel mondo, di ogni mondo. Quella parte di artificialità era esplicita, nota a tutti, e quindi diventava, paradossalmente, autentica e sincera. Giocavamo un po’ tutti "a mercanti in fiera", ma lo sapevamo.
A un certo punto, però, quella prima cultura di mercato è stata amplificata, gonfiata ed esasperata dalle grandi imprese multinazionali e dalle società di consulenza globali. È diventata una vera e propria ideologia, e quella prima buona dimensione di artificialità delle relazioni di mercato è cresciuta molto, troppo. Poco alla volta, e senza accorgercene, ci siamo dimenticati della non-autenticità di molte pratiche, e abbiamo dato loro consistenza di realtà. La gestione del lavoro è diventata tecnica, le persone risorse umane, il marketing una scienza coltivata nei laboratori di neuroscienza. Il gioco è diventato la realtà, e quella prima genuinità è uscita di scena. Ma ancora una volta, il mercato sta trovando la soluzione al male che ha creato.
La ricerca di autenticità dentro il mercato è infatti una delle tendenze più importanti e profittevoli dell’attuale capitalismo. I consumatori cercano autenticità nei prodotti e nei servizi che comprano. La vogliamo nei prodotti alimentari, dove tutto ciò che sa di autentico vale di più; nella ristorazione, quando a Napoli cerchiamo il locale che sia veramente napoletano, e lisboeta a Lisbona. Persino nel turismo "sociale" vogliamo vedere indigeni autenticamente indigeni, e poveri che siano autentici poveri. Birre e gelati artigianali sono preferiti perché portatori di qualcosa di quella autenticità che ci siamo messi decisamente a cercare. Non ci basta uno chef preparato, ne vorremmo uno che crede veramente in quello che fa e dice di fare. Né un contadino che coltiva i suoi prodotti in modo biologico: lo vogliamo incontrare mentre lavora nei suoi campi e ci parla in dialetto, per verificare la genuinità della storia che ci racconta con la merce.
Un primo effetto collaterale di questo interessante fenomeno nuovo riguarda il prezzo di questi prodotti. Questa autenticità è associata in genere a un prezzo alto, qualche volta molto alto, da cui deriva, anche qui, l’esclusione dei poveri. L’autenticità, poi, non è una caratteristica dei prodotti, è una dimensione anche delle persone. Se allora guardiamo bene ci accorgiamo che stiamo chiedendo al mercato quella gratuità che è precisamente quanto ha espulso dai suoi uffici, negozi, banche, soprattutto negli ultimi decenni.
In questo variegato mondo dei mercati autentici, si aprono allora scenari futuri da seguire con molta attenzione. Uno riguarda la grande crescita di nuove comunità di mercato, dove è il consumo dello stesso prodotto o brand ad aggregare le persone in nuove forme di "tribù". Ciò che oggi vediamo ancora solo per alcuni prodotti particolarmente identitari (nel cibo, nella musica, nell’abbigliamento, nelle automobili, nelle moto...), domani potrebbe diventare un fenomeno molto esteso e generalizzato.
In queste tribù di consumatori è l’oggetto a diventare l’elemento di costruzione della "comunità". Rivivono così forme arcaiche di culto totemico, dove il rapporto tra persone è un effetto collaterale del rapporto di ciascun individuo con la cosa. I fedeli (la fede-fedeltà qui è tutto) offrono sacrifici di tempo e energie a qualcosa che, per natura, non ha nulla di gratuito – il prodotto ha un suo prezzo di vendita, ha i suoi profitti che non vanno agli adoratori, ma ai proprietari della marca, che usano gratuitamente il lavoro e la promozione dei loro fidelizzati. Nuove religioni-idolatrie di solo culto, che riempiono di feticci una terra svuotata di dèi.
L’umanesimo biblico ha combattuto l’idolatria del suo tempo anche per liberare l’uomo dal debito originario che caratterizzava i culti totemici e pagani dei popoli circostanti. L’Alleanza con un Dio che crea per eccedenza di amore era stata anche la liberazione dai culti per gli oggetti, dai totem e dai tabù del mondo antico, dove gli oggetti incantavano e incatenavano gli uomini con la loro magia e i loro poteri occulti. Se il disincanto del mondo e la battaglia contro l’umanesimo ebraico-cristiano cui stiamo assistendo producessero, alla fine, un banale ritorno a nuovi culti totemici degli oggetti, saremmo di fronte al peggiore fallimento dell’umanesimo occidentale, alla distruzione di due millenni e mezzo di sviluppo umano e spirituale. Ma sono possibili anche altri scenari, si possono già intravvedere narrazioni diverse sulla linea dell’orizzonte del nostro tempo complicato e bellissimo. Per osservarli e capirli noi ci porremo "sul confine e oltre". Porremo il nostro posto di vedetta sul confine tra gratuità e mercato, tra comunità e persone, tra i totem e l’autentica spiritualità. Aspettiamoci di tutto, e buon viaggio.
l.bruni@lumsa.it