Stella dell'attesa /7. Quando c’è solo una scelta
Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti. Laceratevi il cuore e non le vesti
Il profeta Gioele 2,13
All’uomo antico la voce e le parole non bastavano quando doveva dire la vita e la morte. Aveva bisogno di attivare tutto il corpo, tutte le risorse della carne gli erano necessarie per gridare le parole prime e ultime. Urlare senza stracciarsi i vestiti, senza mettere il sacco e cospargersi di cenere era troppo poco. I gesti erano la cassa di risonanza della voce e la rendevano assordante. Noi abbiamo dimenticato i linguaggi di un tempo, non abbiamo più la ricchezza simbolica del mondo antico e della Bibbia, abbiamo smarrito troppi segni della vita. Ma quando un giorno decidiamo di scendere in piazza per dire finalmente parole decisive per la vita di donne, uomini, del pianeta, non mettiamo il vestito di tutti i giorni: stampiamo una maglietta diversa, la indossiamo, e cerchiamo di associarla al nostro grido perché sia udito di più. Perché quegli antichi sacchi, quella cenere e quelle vesti stracciate sono ancora vivi in qualche angolo nascosto del nostro cuore, e ogni tanto agiscono a nostra insaputa.
Il primo ministro Aman ha, dunque, trasmesso a tutto il regno il decreto di sterminio totale degli ebrei. Non appena «Mordecai seppe quello che era accaduto, si stracciò le vesti, indossò un sacco e si cosparse di cenere. Precipitatosi nella piazza della città, gridava a gran voce: “Viene distrutto un popolo che non ha fatto nulla di male”» (4,1). Come Giobbe (Gb 1,20), come il re di Ninive (Gio 3,5-7), Mordecai inizia il suo lamento integrale del corpo. I segni che Mordecai attiva erano usati per i lutti e per le penitenze; non è allora da escludere che Mordecai entrò in uno stato d’angoscia quando si rese conto delle gravissime conseguenze che il suo gesto di ribellione aveva prodotto sul suo popolo. Qualcosa di simile a quanto succede anche a noi, quando ci rendiamo conto che un nostro atto di dignità e di verità ha danneggiato la nostra famiglia o la nostra azienda, ha raggiunto e toccato individui innocenti che amiamo. E lì ci assale un dolore acuto che ci toglie il fiato, vorremo cancellare il passato e scomparire dalla scena. Poi continuiamo a vivere, ci mettiamo ad urlare, indossiamo il sacco, ma non torneremo indietro per nulla al mondo perché sappiamo che non avevamo scelta. Ma il grande dolore resta, a volte cresce, non ci lascia più in pace per tutto il resto della vita, è il costo della nostra dignità e di quella di tutti.
Il lamento forte di Mordecai si estese a tutto il Paese: «In ogni provincia in cui erano state pubblicate le lettere, c’erano grida e lamenti e grande afflizione tra i Giudei, i quali si stendevano sul sacco e sulla cenere» (4,3). Chi invece sembra non sapere nulla dell’editto mortifero è Ester. Il centro drammatico di questo capitolo è il dialogo a distanza tra Ester e suo cugino (e padre adottivo) Mordecai, che va letto nel suo ritmo narrativo, come una tragedia.
Primo atto: «Entrarono le ancelle e gli eunuchi della regina e le parlarono. All’udire quel che era accaduto, rimase sconvolta e mandò a vestire Mordecai e a togliergli il sacco, ma egli non acconsentì» (4,4). Ester come molte donne nella Bibbia agisce senza indugio. La sua reazione immediata è cercare di rivestire il cugino, di “togliergli il sacco” di dosso; lo facciamo (quasi) tutti, le donne lo fanno diversamente e di più. Il gesto di Ester è parte del repertorio delle buone relazioni primarie, ma non sempre questo gesto primo del cuore funziona: Mordecai non accetta. Qualche volta gli amici non si lasciano “rivestire” da noi, perché pur capendo e apprezzando l’amore che anima il nostro gesto sentono di dover restare nella loro nudità urlante. La vita morale avanza, ogni giorno, perché ci sono “cugini” e “cugine” che restano nudi nelle piazze, che preferiscono il caldo dell’anima a quello del corpo. Non ascoltano il nostro buon senso, e così alzano la temperatura morale del mondo. Ecco perché quando leggiamo questo brano, diciamo a Mordecai: “Fai bene così, non accettare le vesti, continua nel sacco la tua lotta”. Il Bene comune vive e cresce grazie ai pochi uomini e donne che indossano il sacco per implorare la conversione dei potenti e la cancellazione dei loro decreti di sterminio: sono le “sentinelle della notte”, che fedeli nel loro posto di vedetta vegliano per tutti, e implorano l’arrivo di un’altra aurora della terra.
Secondo atto. «Allora Ester chiamò il suo eunuco Atac e lo mandò a chiedere informazioni precise a Mordecai, che gli fece conoscere quel che era accaduto… Mordecai gli disse di ordinare ad Ester di entrare dal re, per domandargli grazia e intercedere a favore del popolo» (4,5-8). Ester a questo punto capisce che la posta in gioco deve essere molto alta, e cerca di capire. Colpisce molto il muro che esiste tra la corte e il regno: tutti gli ebrei sanno del decreto di sterminio, Ester, la moglie del re, non sa. Il potere crea delle cortine invisibili ma fortissime tra i potenti e il popolo. La decadenza delle élite dominanti dipende quasi sempre dalla perdita di contatto con la vita normale della gente. Ci si allontana dai dialoghi dei tram, dalle code nei supermercati, dalle spese nei mercatini rionali; si dimenticano le parole ordinarie delle donne e degli uomini, soprattutto quelle dei poveri e dei giovani, e inizia a crescere l’incompetenza sugli aspetti decisivi di cui quelle elite dovrebbero occuparsi - il declino è già incominciato. È questa la radice della tristezza che emana da tutte le case dei potenti: perché sappiamo che loro hanno molte cose che noi non avremo mai, ma sappiamo anche che non hanno qualcosa di essenziale che noi invece possediamo: la normalità, la straordinaria bellezza dell’ordinario.
Terzo atto. «Atac entrò e le riferì tutte queste parole. Ed Ester disse ad Atac: va’ da Mordecai e digli: “Tutte le nazioni dell’impero sanno che chiunque, uomo o donna, entri dal re senza essere chiamato non avrà scampo… E io non sono più stata chiamata a entrare dal re già da trenta giorni”» (4,9-11). Questo terzo atto è quello delle mediazioni. I dialoghi tra Ester e Mordecai avvengono per interposta persona, Atac, un mediatore che svolge perfettamente il suo mestiere di canale senza ostruzioni. Ma c’è anche un’eco delle mediazioni delle relazioni del re, comprese quelle intime. Da Erodoto (Storie I,99) sappiamo che ai re persiani non si poteva accedere direttamente senza “chiamata”; ci stupisce però che questo sistema valesse anche per la regina, che qui sembra essere trattata a guisa di concubina o di un funzionario qualsiasi. Forse perché la moglie era pur sempre una donna e la sua condizione di subordinazione pesava più dei privilegi dell’intimità coniugale – lo vediamo ancora. Nel Targum 2 (la versione aramaica della Bibbia) Ester dice: «Ho pregato per trenta giorni perché il re non chiedesse di me e così non mi inducesse a peccare». Ester comunque esita nell’assecondare la richiesta di Mordecai, indugia, e così apre il quarto decisivo atto.
Quarto atto. «Atac riferì a Mordecai tutte le parole di Ester. Mordecai disse ad Atac: va’ a dirle: “Ester, non dire a te stessa che tu sola potrai salvarti nel regno, fra tutti i Giudei. Perché se tu ti rifiuti in questa circostanza, da un’altra parte verranno aiuto e protezione per i Giudei… Chi sa che tu non sia diventata regina proprio in vista di un tempo come questo?!” » (4,12-14). Forse, di fronte alla reazione indugiante di Ester, in Mordecai si insinua il dubbio di un possibile opportunismo della regina, che nella sua condizione di potere non sente per sé stessa il pericolo che grava su tutti i suoi compatrioti ebrei. Non possiamo dirlo, comunque non è questo dubbio il centro di questa scena. La sua perla è altrove. Mordecai dice a Ester che lei non doveva sentirsi indispensabile per la salvezza del suo popolo. Non conviene far sentire l’altro come l’unica o ultima spiaggia della nostra esistenza, anche quando lo è davvero. Qui Mordecai è disperato, ma non lo è al punto di strisciare come un servo ai piedi della regina. Ed è qui che quel Dio, mai invocato nel libro di Ester (nel testo ebraico), fa sentire la sua presenza.
La fede è anche quella risorsa di ultima istanza che in ogni situazione, anche in quelle più tremende e disperate, ci dona la dignità dei figli. Ci sono persone che conoscono questa stessa dignità anche senza avere la fede, ma aver custodito la fede per tutta la vita rende questi gesti più naturali. Chissà quante dignità, credenti e no, ci stanno ora tenendo in vita impedendo alla terra di sprofondare nel nulla?! C’è poi la frase bellissima che Mordecai dice a Ester: “Forse il senso di tutta la tua straordinaria storia si svela alla luce di questo momento”. Il senso di una intera esistenza, a volte anche quello delle generazioni passate, si scopre in un attimo decisivo. Dolori assurdi di nonni, nonne, madri, un giorno si illuminano grazie a una risposta giusta di una nipote, nel suo momento. Come quella di Maria, quando i dolori di Agar e di Rachele, il grido di Tamar cosparsa di cenere e quello di Giobbe sul mucchio di letame, si illuminarono e in quel momento capimmo. Forse dobbiamo conservare come tesoro prezioso una qualche goccia di innocenza nel cuore per poter riuscire un giorno a pronunciare uno di questi “sì” diversi – fosse anche l’ultimo.
Ultimo atto. «Ester mandò a dire a Mordecai: “Va’ e raduna i Giudei che abitano a Susa e digiunate per me: per tre giorni e tre notti non mangiate e non bevete. Anch’io e le mie ancelle digiuneremo. Allora, contravvenendo alla legge, entrerò dal re: e se devo morire, morirò”» (4,15-16). Stupendo. Tutto è diventato in lei chiaro. Non sappiamo cosa sia successo nell’anima di Ester perché l’indugio si trasformasse in una certezza assoluta, forse perché queste alchimie improvvise sono parte del repertorio segreto delle donne. Ester ora sa perfettamente cosa deve fare, e agisce con la stessa forza profetica di Mordecai, e lo supera. Con questo gesto Ester diventa qualcosa che non era ancora. Non è più la cugina-figlia di Mordecai che obbediva docilmente alle sue istruzioni. La risposta giusta data nel suo momento decisivo la fa diventare una Madre di Israele, una delle donne più belle e amate della Bibbia. E noi riusciamo a vederla ancora oggi mentre “contravviene alla legge” e ripete insieme alle migliaia di sue sorelle persiane-iraniane di oggi: “Se devo morire, morirò”. E poi facciamo l’impossibile affinché viva.
Dedicato a Fratel Biagio, sentinella dell’aurora, che continua la sua corsa oltre il nostro orizzonte.
l.bruni@lumsa.it