Stella dell'assenza. Ed Ester continua a errare
Il libro di Ester è stato uno dei libri più letti dagli ebrei durante la persecuzione nazista e fascista. La lettura si faceva preghiera, il libro diventava grido: "Torna Ester, torna Mordecai, fermate la follia omicida del novello Aman". Un grido che deve rinnovarsi oggi nella memoria di quel tempo tremendo, e poi fiorire in preghiera in tutti quei luoghi, che sono ancora troppi, dove Aman continua a realizzare i suoi piani di sterminio. Etty Hillesum, giovane ebrea olandese, una delle anime profetiche e poetiche più grandi del Novecento, deportata e uccisa ad Auschwitz, si chiamava Ester.
"Quella notte il sonno del re fuggì via. Perciò disse che gli fosse portato il Libro delle memorie, le cronache, e di dargliene lettura. Egli vi trovò scritto, riguardo a Mordecai, che egli aveva riferito al re che due eunuchi del re, nel fare la guardia, avevano cercato di aggredire Assuero. Disse allora il re: "Quale onore o favore abbiamo fatto a Mordecai?". I servi del re risposero: "Non hai fatto nulla per lui"" (6,1-3). Nel giorno che passa tra il primo e il secondo banchetto preparati da Ester per Assuero e Aman (cap. 5), succede qualcosa di inatteso. Entra in scena l’insonnia, e per riaddormentarsi il re chiede che gli venga portato il registro delle cronache di corte, un genere letterario che noi oggi (forse) difficilmente sceglieremmo per riprendere sonno.
La versione greca del testo ha un incipit diverso: "Quella notte il Signore tolse il sonno al re". Qui è Dio l’agente nascosto della serie di combinazioni provvidenziali di questo episodio decisivo - un Dio che, lo sappiamo, invece non compare mai nel testo ebraico. Spiegare l’insonnia del re ricorrendo alla mano invisibile e provvidente di Dio appare come la strategia narrativa e religiosa più semplice. In realtà è quella più difficile e pericolosa. Perché se diciamo che dietro agli eventi casuali e alle coincidenze dagli esiti per noi felici c’è la mano di Dio, come spieghiamo l’assenza di quella stessa mano in tutte le volte in cui il re continua a dormire e Aman impicca i molti Mordecai della storia?
Certo, possiamo sempre pensare con gli amici di Giobbe che la mano invisibile di Dio sta dietro soltanto alle coincidenze dei buoni per premiarli e che l’assenza di quella mano segnala la presenza di qualche colpa negli altri, e così rafforziamo solo l’antica "teologia retributiva" che tanti danni ha prodotto. È infatti troppo comodo, e quindi sbagliato, inserire nel copione il ruolo di Dio solo per le storie dai finali felici e toglierlo quando il decreto diventa operativo e gli stermini si compiono. Migliore è allora la scelta del testo ebraico che non fa entrare Dio in tutte queste bizzarre coincidenze: le registra, e tace. Meglio restare nell’ignoranza sulle ragioni non dette - quando la Bibbia non ci offre una spiegazione di un evento, la scelta più saggia è non pretendere di conoscere noi la volontà di Dio meglio della Bibbia che ci tiene nel mistero.
Il re legge i verbali, ri-scopre l’intervento salvifico che Mordecai aveva operato nei suoi confronti (2,21-23) e prende coscienza di non aver fatto nulla per ringraziare e ricompensare Mordecai. Il tema è dunque la reciprocità, la riconoscenza, la gratitudine (charis, in greco, la stessa parola che sarà tradotta in latino con gratia). Il re davanti alla risposta dei suoi servi - "non hai fatto nulla per lui" - sente il debito della reciprocità mancata. In quel mondo antico tutto basato sull’onore e sulla vergogna essere considerati ingrati era un male molto grande, lo era per tutti ma soprattutto per i sovrani. Un sovrano era giusto e quindi amato dal popolo (tutti i sovrani vogliono l’amore del popolo, anche quelli cattivi) se era capace di riconoscenza, se sapeva quindi individuare i meriti dei suoi sudditi e poi ricompensarli. Inoltre, in questo caso l’azione meritoria di Mordecai aveva per oggetto direttamente il re, quindi l’ingratitudine era ancora più grave, e mostrarsi ingrato avrebbe inficiato la fama del sovrano.
Ci può quindi essere una possibile ragione strumentale e opportunistica nel bisogno di riconoscenza di Assuero. Gli conviene essere riconoscente perché i benefici di un atto di gratitudine (la stima del popolo) sono enormemente maggiori del suo costo. Per questo i re dovevano essere riconoscenti e quindi riconoscere l’onore delle azioni se volevano essere amati e non solo temuti. Nella nostra società, le insonnie dei re (che continuano) producono altre azioni, il consenso non è legato alla riconoscenza per l’onore dei sudditi ma al freddo calcolo degli interessi, dove gli idolatrati meriti stanno solo generando una civiltà ingrata. Non sappiamo, neanche qui, se nel bisogno di sdebitarsi di Assuero ci fosse anche una dimensione sincera; forse sì, ed è bene pensare che ci sia, attivando anche qui la stessa benevolenza con la quale gli abbiamo accreditato la sincerità nel suo gesto di tenerezza verso Ester svenuta per la paura (5,1f). Il cinismo non aiuta mai nella vita, ma è particolarmente dannoso quando si legge un’opera letteraria grande, dannosissimo con la Bibbia perché ci impedisce di sintonizzarci con l’anti-cinismo di Dio che continua a guardare la terra ogni mattina "tutto sperando, tutto credendo, tutto amando", senza scoraggiarsi per la nostra infima reciprocità orizzontale e verticale.
Ma ecco un’ulteriore coincidenza: anche Aman è colpito da insonnia nella stessa notte speciale di attesa: "Mentre il re veniva informato circa la benevolenza di Mordecai, ecco Aman nel cortile della reggia… Era venuto per dire al re di fare impiccare Mordecai al palo che egli aveva preparato per lui" (6,4). Quella duplice insonnia finisce per complicare il progetto perverso di Aman. Il re infatti disse: ""Chiamatelo!". Allora il re disse ad Aman: "Che cosa dovrò fare per l’uomo che io voglio onorare?"" (6,5-6). Con un esplicito tono umoristico, Assuero, che appare in buona fede e che ha dimenticato il decreto di sterminio da lui stesso firmato, chiede proprio ad Aman di suggerirgli un premio adeguato che, come tutti i premi delle civiltà antiche della vergogna e dell’onore, deve essere consegnato in pubblico, nella piazza della città - perché i premi, diversamente dagli incentivi, hanno senso solo se visti dalla comunità.
Siamo prossimi ad un ribaltamento delle sorti (purim), che si serve di un errore fatale, goffo e ingenuo di Aman: "Aman disse in cuor suo: "Chi il re vuole onorare se non me?". E rispose al re: "Per l’uomo che il re vuole onorare, i servi del re portino una veste di lino che viene indossata dal re e un cavallo che il re suole cavalcare: siano dati a uno degli amici del re, fra i nobili, e questi ne rivesta l’uomo che il re ama; poi lo faccia salire sul cavallo e si annunci nella piazza della città: così sarà per ogni uomo che il re intende onorare"" (6,6-9). Pensando di essere lui la persona da onorare pubblicamente, Aman consiglia al re la pompa magna, una cerimonia talmente solenne da sfiorare il ridicolo. Ma ecco la svolta narrativa, che però noi (diversamente da Aman) conosciamo già: "Il re disse ad Aman: "Come hai detto, così farai a Mordecai…, e non trascurare nulla di quello che hai detto". Aman prese la veste e il cavallo, rivestì Mordecai e lo fece salire sul cavallo, passò per la piazza della città annunciando: "Così sarà per ogni uomo che il re intende onorare". Mordecai ritornò nel cortile della reggia, e Aman tornò a casa sua afflitto e con il capo coperto" (6,10-12). Le parti e le sorti si invertono: Aman finisce per essere costretto a onorare la persona che odiava.
Le umiliazioni che gli altri ci procurano intenzionalmente non sono mai cose buone. Perché poche azioni sono più dannose di quelle di chi le orchestra per umiliare qualcuno, magari pensando di renderlo così più umile. Non bisogna confondere le persone umiliate dagli altri con le persone umili, anche se in superficie possono somigliarsi, e qualche rara volta coincidere. Agli umiliati manca quasi sempre la gioia, la pace e sono spesso pieni di astio e di odio per la vita, mentre gli umili sono gioiosi, miti e pacificati. Discorso diverso quando è la vita a umiliarci senza che nessuno lo voglia, come nel caso di Aman. In questi casi, qualche volta, queste umiliazioni non volute possono generare la buona umiltà; possono, ma, anche qui, non siamo mai certi dell’esito di questi processi e qualche volta anche le umiliazioni della vita ci peggiorano, soprattutto se le viviamo con la convinzione di non averle meritate e quindi non le accogliamo con mitezza che è la virtù necessaria per trasformare le umiliazioni in umiltà.
E quando l’umiltà coltivata e custodita negli anni (forse solo gli anziani sono davvero umili) diventa habitus può riuscire nel miracolo di trasformare in bene anche le umiliazioni cattive procurateci dagli altri. In questo episodio colpisce la passività di Mordecai: lui non ha cercato né la riconoscenza da parte del re né l’umiliazione di Aman: sono arrivate sulla traccia di una misteriosa giustizia dove il suo grande nemico diventa lo scudiero della sua gloria. Il testo non sente il bisogno di dirci i sentimenti di rivincita di Mordecai, forse perché i giusti non godono delle umiliazioni degli altri, neanche di quelle dei nemici. E così, dopo il grande premio Mordecai torna a vestire il sacco, quella gloria straordinaria non aveva consumato la sua umiltà.
Un anno prima di venire deportata ad Auschwitz dove morì, Edith Stein, ebrea, filosofa e monaca carmelitana, scrisse un componimento poetico dal titolo dal timbro profetico: Dialogo notturno. Edith immagina che di notte una misteriosa figura femminile entri in monastero e cominci a dialogare con la madre priora: la donna che arriva è Ester: "Così venne il giorno, in cui avvicinai il Re per implorare la salvezza. Dal suo sguardo dipendeva la vita o la morte. Con sguardo amico mi accolse…". Poi la priora rivolge a Ester una domanda: "E oggi un novello Aman con odio amaro gli ha giurato strage: è per questo che Ester è ritornata? Ester risponde: "Sì lo hai detto. Sì, io erro per il mondo per implorare rifugio per il popolo senza patria, sempre scacciato e calpestato, ma che pure non può mai morire"". A noi ora continuare il suo dialogo interrotto con Ester, nell’attesa certa dell’aurora.
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