Radici di futuro /7. L'altro nome del padre
Bambina mia,per te avrei dato tutti i giardini del mio regno se fossi stata regina, fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.Tutto il regno per te. Ti lascio invece baracche e spine... Noi siamo solo confusi, credi. Ma sentiamo. Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci di amare qualcosa. Ancora proviamo pietà. C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto. Io ora lo vedo di più. C’è splendore. Non avere paura.
Mariangela Gualtieri
Ogni generazione deve decidere quali virtù di ieri vuole custodire e quali dimenticare. Pochissime virtù sono virtù sempre e ovunque; tutte le altre sono virtù qui e ora, e alcune virtù col tempo si trasformano in vizi (e viceversa). Le virtù militari sono state grandi virtù nelle passate civiltà. Venivano trasmesse nelle famiglie, nelle religioni, nella scuola, narrate dalle fiabe e dai romanzi. Quei racconti guerrieri e patriottici qualche volta ci fanno ancora commuovere. Ma noi decidiamo di non indugiare, e distogliamo lo sguardo. Perché la storia delle guerre ci insegna che l’albero della democrazia nasce, cresce, porta buoni frutti quando si coltivano virtù altre: la mitezza, il dialogo, la reciprocità, la compassione, la tolleranza, la non-violenza. E così, parole come “il nemico” sono uscite dal territorio delle virtù per entrare in quello delle parole da riporre nella madia di ieri.
Il libro Cuore di Edmondo De Amicis, uno dei libri più letti in Italia e nel mondo, parla moltissimo di virtù. Molto di virtù militari e dell’amor patrio, virtù importanti per il giovane Regno d’Italia. Chi può dimenticare la “Piccola vedetta lombarda” o il “Tamburino sardo”? Ma quei ragazzi di De Amicis leggevano quei racconti di piccoli soldati eroi mentre stavano seduti sui banchi, e così ci dicevano, forse oltre l’intenzione dell’autore, che il luogo buono dove devono stare i ragazzi è il campetto davanti alla scuola, non il campo di battaglia. La prima critica a quelle virtù belliche era allora intrinseca al libro stesso, che mentre le narrava le superava per fondare una civiltà diversa.
Ho riletto Cuore in età adulta. Mi è piaciuto molto, alcune pagine moltissimo. Non ho condiviso il sarcasmo di Umberto Eco (Elogio a Franti, 1962), ho apprezzato il bel giudizio di Benedetto Croce (La Critica, 1903). Un libro che parla di ragazzi, di famiglia, di povertà e di molto dolore, parla di adulti e di maestri – stupendo il ritratto della “maestrina dalla penna rossa”. Ma parla soprattutto di scuola, dei primi anni di scuola degli scolari (che bella parola, dimenticata). Cuore è un libro che vede i ragazzi, in una società che “non vedeva” ragazzi e bambini. E li incominciò a vedere nel loro gesto dell’andare a scuola – ed è sempre lì, mentre corrono leggeri con i loro zaini pesanti, che ogni generazione deve imparare a rivederli, per capirli, per capire presente e futuro.
Siamo nell’Italia del 1886, a Torino, in una scuola elementare, dopo la Legge Coppino (1877) che aveva portato a tre gli anni di scuola obbligatoria. È l’aurora della scuola di tutti, e come in ogni aurora la luce e l’aria sono diverse e uniche. Cuore è un libro sulla rivoluzione civile e morale più grande della modernità. Prima (e in parte anche dopo) solo i figli dei nobili e dei ricchi andavano a scuola. Quelli dei poveri dovevano invece lavorare, lavorare troppo e male – dei miei quattro nonni e nonne soltanto Domenico e Luigi sapevano scrivere la loro firma, perché – maschi – avevano fatto la prima e la seconda elementare.
De Amicis è grandissimo nel farci entrare tra i banchi di quelle prime classi: «Io ero nato per fare il maestro di scuola, e quando vedo in una stanza quattro banchi e un tavolino, mi sento rimescolare!» (Pagine sparse, 1874). E lì ricomprendere cosa è stata e continua a essere veramente la scuola di tutti e per tutti. In quella Italia e in quella Europa i bambini dei ricchi andavano a scuola insieme ai figli dei poveri, classi sociali diverse che si incontravano e affratellavano grazie all’amicizia e alla fraternità sui banchi dei loro figli. Era in classe che si stemperava quell’invidia sociale che è la radice di ogni disarmonia sociale. Erano tutti diversi eppure tutti uguali. Una Italia ancora semi-feudale che imparò l’abbecedario della democrazia nelle aule scolastiche, che erano e restano non meno importanti delle aule del parlamento. Abbiamo potuto scrivere gli articoli profetici della Costituzione perché quell’umanesimo nuovo l’avevamo vissuto e scritto nei temi e nei dettati – siamo fondati sul lavoro perché i bambini poveri possono andare a scuola. E poi abbiamo voluto che anche i bambini con problemi stessero nelle classi di tutti grazie agli insegnanti di sostegno (ne ho rivisti molti nel libro Cuore), e abbiamo scacciato la tentazione delle “classi speciali”. Le leggi razziali-razziste furono disumane da ogni punto di vista, ma furono anche sacrileghe quando cacciarono i bambini ebrei dalle scuole. L’uscita dalla porta della loro classe non fu per quei bambini e bambine meno spaventosa e terribile dell’entrata nella porta dei lager.
I racconti di Cuore parlano di ragazzi, maschi, tra i 9 e i 12-13 anni. Un’età meravigliosa, sospesa tra l’infanzia e l’adolescenza. Quando l’innocenza dell’infanzia non c’è più e al suo posto ne sboccia un’altra. È l’innocenza che, ad esempio, si esprime in una nuova fiducia verso i grandi – gli “uomini”, li chiamano così i ragazzi di Cuore, perché per loro i grandi sono abitanti di un mondo molto diverso. La fiducia incondizionata del bambino di ieri, che resta, ora si colora di stima e di imitazione. È l’età dove i grandi sono amatissimi dai piccoli, zii e zie, maestri e maestre. Non hanno più il candore del bambino, ma ne hanno un altro, con più splendore. Hanno poi una intelligenza tipica e straordinaria che in certe sue dimensioni scompare con l’adolescenza e che la transitorietà rende sublime – questa intelligenza diversa ed effimera è patrimonio morale dell’umanità.
Alcune pagine di Cuore sono tra le massime della nostra letteratura. Alcuni dei suoi racconti sono dei romanzi nel romanzo – su alcuni torneremo anche domenica prossima.
Dagli Appennini alle Ande. È la storia di Marco, ragazzo genovese di tredici anni, che parte, solo, per l’Argentina in cerca della madre. Ho rivisto Marco nei tanti ragazzi che partono ancora soli, si imbarcano sul nostro mare, qualche volta arrivano, qualcuno trova la madre o il padre o entrambi, altri trovano i porti chiusi, troppi trovano la morte. E quando dopo un viaggio lunghissimo e disperato raggiunge Tucuman (De Amicis era stato in Argentina), Marco ritrova finalmente la mamma malata, leggiamo per tre volte una parola: «Dio, Dio, Dio mio», gridata dalla mamma nel veder comparire il suo figliolo. Cuore è stato criticato per l’assenza della religione: questa triplice parola urlata da una madre riempie il libro di una fragranza di alta spiritualità; è il silenzio della religione che fa risuonare la parola “Dio”. È poi significativo che i libri per ragazzi più amati e influenti nella cattolicissima Italia siano stati Cuore e Pinocchio, libri che parlano pochissimo di Dio e di religione ma che sanno parlare all’anima dei bambini (e dei grandi). Forse perché le opere che nascono con l’intenzione di scrivere un libro religioso raramente sono buoni libri (occorrerebbe il genio religioso immenso e tribolato di Manzoni o di Dostoevskij); perché il messaggio si divora l’arte, che ha un bisogno assoluto di libertà e di gratuità. Dio ama intrufolarsi nella vita a nostra insaputa, sorprendere e sorprenderci: e così che si protegge dalle nostre ideologie. Ma dove i libri ideologici, compresi quelli religiosi, non funzionano mai è con i bambini e i ragazzi. I bambini incontrano Dio e il suo spirito soltanto nella vita, non nelle nostre idee sulla vita. Vengono al mondo equipaggiati di un senso religioso che si portano in dote dal mondo dal quale provengono e con il quale per anni restano in contatto vitale e continuo. Sono compagni degli angeli e cittadini del Paradiso. Noi adulti riusciamo a parlare di Dio con loro solo se entriamo in questo loro regno – «se non diventerete come bambini...». È difficile trasmettere la fede ai bambini perché invece di provare noi a entrare nel loro regno diverso chiediamo a loro di entrare nel nostro, molto meno evangelico e religioso.
L’infermiere di tata. Forse il mio “racconto mensile” preferito. Cicillo viene inviato dalla madre all’ospedale di Napoli per visitare suo padre, tata, tornato dalla Francia e lì ricoverato. L’infermiere gli indica un uomo molto malato: «Ecco tuo padre». Cicillo scoppia a piangere, «povero tata, quanto era mutato». Cicillo lo assiste, il malato è quasi sempre con gli occhi chiusi. E così Cicillo «cominciò la sua vita d’infermiere»: gli accomodava le coperte, gli toccava la mano, «gli scacciava i moscerini». Dopo cinque giorni di assistenza, un uomo entra nel camerone e grida: «Cicillo!». Era... suo padre. Il fanciullo aveva assistito un altro malato. Riabbraccia il padre, ma non si muove da quel letto. Il padre lo invita a tornare a casa, e Cicillo: «C’è quel vecchio... Mi guarda sempre. Credevo fossi tu... Lasciami qui ancora un po’». Cicillo resta, e «ricominciò a fare l’infermiere». Rimane con lui alcuni giorni, gli stringe sempre la mano. Alla fine l’uomo muore. Cicillo riparte, ma cercava un nome da dare a quell’uomo: «E gli rivenne dal cuore alle labbra il dolce nome che gli aveva dato per cinque giorni: Addio povero tata». Cicillo ci sta svelando uno dei segreti dell’esistenza umana: si inizia amando una madre e un padre e qualche fratello, si termina scoprendo ogni uomo e donna come “fratello, sorella, madre” e padre.
Cicillo è poi anche immagine splendida, perché fanciulla, delle suore, delle infermiere e degli infermieri, di ieri e oggi. Non sapevano il nostro nome ma ci hanno trattato da tata, e continuano a farlo. È questa la natura profonda della sanità, un mondo meraviglioso di sconosciuti che accudiscono e tengono la mano ad altri sconosciuti che però somigliano molto, troppo, alle persone di casa. Se guardiamo bene, Cicillo continua a tenere la mano e a scacciare i moscerini a tata ogni giorno nei nostri ospedali, per quella pietas laicissima e religiosa che tiene in piedi il mondo. E come non udire in quel «Ecco tuo padre» dell’infermiere a Cicillo un’eco dell’«Ecco tua madre» di Gesù a Giovanni?
Il mestiere più difficile è imparare a trovare la vita dentro la morte, vedere il Vangelo laddove non dovrebbe stare, toccare Dio dove Dio non c’è.
l.bruni@lumsa.it