Opinioni

Profezia è storia /25. Eredi, cioè distruttori e custodi

Luigino Bruni sabato 23 novembre 2019

Il serpente di bronzo ai tempi di Ezechia non guariva più, anzi feriva: i valori del passato possono far questo, perché nessuna garanzia è data da Dio alle cose di cui egli ha voluto di volta in volta servirsi
Paolo De Benedetti, Ezechia e il serpente di bronzo

Il passato, l’origine e le radici di una storia e di una vita sono spesso risorse essenziali per comprendere come e dove continuare ora quella storia e quella vita. Qualche volta, però, in alcune fasi rare e cruciali delle comunità e delle istituzioni, il riferimento all’inizio può rivelarsi una trappola mortale. Qui ci sarebbe bisogno di discernere gli spiriti del passato alla luce dell’esperienza presente; come accade spesso nelle famiglie, dove il senso di un evento doloroso vissuto dal nonno lo svela, tre generazioni dopo, la storia luminosa di un nipote. Il passato è vivo e vivificante se sa cambiare, morire e risorgere nel presente. Nelle vicende umane qualche volta sono i frutti a rigenerare le radici. Durante i processi di riforma delle comunità, delle istituzioni e delle organizzazioni, ad esempio, l’origine di una tradizione, di una regola, di un principio, non è sufficiente per capirne il senso presente e futuro. Occorre guardare all’oggi, all’uso corrente che se ne fa. Quando nelle comunità e nelle istituzioni è necessaria una riforma etica, occorre sapere individuare quali tradizioni dell’origine sono da conservare e quali sono da dimenticare.

Il regno del Nord è stato conquistato dagli Assiri. E quella superpotenza ora minaccia anche il regno del Sud, Giuda, e la capitale Gerusalemme. Qui nel frattempo è salito al trono Ezechia: «Fece ciò che è retto agli occhi del Signore, come aveva fatto Davide, suo padre» (2 Re 18,3). Finalmente, dopo una lunga serie di re più o meno corrotti e idolatri, arriva un re giusto. La sua rettitudine si manifesta nella lotta idolatrica e nell’affermazione del mono-culto di YHWH, un tema molto caro all’autore di questi libri storici. Infatti, «egli eliminò le alture e frantumò le stele, tagliò i pali sacri» (18,4). Distrusse le "alture", cioè gli altari ai vari dèi stranieri posti nei luoghi alti (le famigerate bamot, odiate da tutti i profeti), e che i vari predecessori, anche i migliori, non erano riusciti a eliminare, evidentemente perché frequentate e amate dalla gente (i popoli del mediterraneo e del Medio Oriente hanno sempre amato gli "altarin", e li amano ancora). Insieme a queste eliminò anche le stele rituali (le massebot) e i pali sacri (le asere), simboli di fertilità associati alla divinità femminile Asera/Istar/Astarte, dea molto popolare e venerata nell’area. L’elemento più originale della riforma religiosa di Ezechia è però un altro. Ezechia «fece a pezzi il serpente di bronzo, che aveva fatto Mosè» (18,4). Lo zelo religioso di questo re lo portò a distruggere una reliquia, un oggetto sacro che risaliva addirittura a Mosè, l’icona della Legge e dell’Alleanza con YHWH. Forse nessun nome più di Mosè evocava sulla terra il nome di YHWH, nessuno più di lui era simbolo di purezza cultuale, di lotta anti-idolatrica (il vitello d’oro), dell’unico Dio vero e diverso. Perché allora Ezechia distrusse un oggetto-documento che evocava direttamente la memoria di Mosè, legato poi a un importante episodio dell’Esodo, parte della tradizione e della storia della liberazione dall’Egitto?

Quel serpente di bronzo fece la comparsa durante una crisi di fede del popolo, che iniziava a mormorare e rimpiangere il buon cibo della schiavitù. Dio li punì («Il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì»). Il popolo chiese a Mosè di intercedere per ottenere il perdono. Mosè pregò e «YHWH disse a Mosè: "Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita"... Quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita» (Numeri 21,6-9). Quindi quel serpente di bronzo fu costruito da Mosè in obbedienza a una precisa parola di Dio, era "sacramento" di una teofania e memoria di una tappa importante della storia della salvezza. Un episodio rimasto vivo per secoli nella tradizione ebraica, e che ritroviamo anche nel Nuovo Testamento, come un’immagine del crocifisso: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Giovanni 3,14-15). Eppure Ezechia, re giusto e fedele, decise di distruggere quel serpente di Mosè, estese la sua "distruzione creatrice" di idoli anche a quell’oggetto benedetto, ricordo e memoria di un brano di storia benedetta, costruito dal profeta più grande, plasmato dalle sue mani sante. Possiamo immaginare quanto amato fosse quel serpente, quanto venerato dal popolo, quante preghiere recitate ai suoi piedi dalla gente semplice in cerca di aiuto e grazie. E infatti, il testo aggiunge: «Fino a quel tempo gli Israeliti gli bruciavano incenso e lo chiamavano Necustàn» (18,4). E sta proprio in questa venerazione, in questo bruciare incenso e nel dargli un nome, che si trova la spiegazione della sua eliminazione da parte di Ezechia. Quando a un oggetto veniva bruciato incenso e, soprattutto, veniva dato un nome, quell’oggetto non era più soltanto un simbolo, un memoriale, un’icona; quell’oggetto con incenso e nome era diventato un idolo Quel serpente di bronzo si era col tempo allontanato dal suo significato originale, e il suo uso era diventato, di fatto, idolatrico.

L’origine stessa di quel serpente aveva già elementi arcaici che confinavano con le pratiche sciamaniche e magiche. Guarire – o provare a guarire – da un male utilizzando come medium l’immagine dello stesso male (morso di serpente con la vista del serpente) è una espressione di una tecnica magica molto antica, detta omeopatica (il simile cura il simile). Quel serpente aveva quindi una origine complessa e in parte meticcia, forse appresa in Egitto, dove estesa era la pratica magica e divinatoria. Sappiamo che nella storia antica di Israele i profeti (Samuele, Ezechiele) conservavano ancora tracce del profetismo arcaico, la novità della profezia biblica si era intrecciata con le pratiche degli indovini e degli aruspici cananei, assiri e babilonesi. Questo oggetto di Mosè, il serpente, aveva quindi subìto nel tempo una evoluzione, e da reliquia della liberazione, del Sinai e dell’Esodo, aveva iniziato a vivere di vita propria. Il legame con Mosè, forte all’inizio, aveva lasciato il posto alle contaminazioni con i culti cananei. E quando nell’ottavo secolo arrivò Ezechia la trasmutazione in idolo era già completa. Questo re fu grande nel trovare il coraggio di associare quel serpente di Mosè alle stele di Astarte e agli altari degli altri dèi pagani. Avrà incontrato tra il suo popolo forti resistenze, ma se il testo ha voluto lasciare traccia di questo dato scomodo per i redattori (un re che distrugge una reliquia di Mosè), è perché questo episodio nasconde qualcosa di importante nell’economia della storia biblica - e nella nostra "economia".

Mosè aveva fatto costruire anche l’Arca dell’Alleanza, che al tempo di Ezechia era ancora custodita nel tempio di Gerusalemme. Il serpente di Mosè fu distrutto, l’arca no. Perché, possiamo dedurre, l’arca aveva conservato il significato e l’uso iniziale, era memoria e sacramento dell’Alleanza. Conteneva, secondo la tradizione, le Tavole delle Legge, ma quell’oggetto, diversamente dal serpente, non era diventato un idolo. E quindi, nella riforma religiosa di Ezechia, l’arca doveva essere conservata per tener viva la memoria. L’arca era un simbolo che riusciva a parlare delle cose giuste, che metteva insieme (sym-ballo) correttamente presente e passato, era un segnale che indicava la retta via da percorrere in quel tempo di svolta etica e spirituale. Il serpente no. Sebbene fosse stato prodotto dalla stessa origine, il suo presente non riusciva a ricollegarsi con un volto buono del passato. Nell’ottavo secolo, il Mosè del serpente era diverso dal Mosè dell’arca. Ezechia ebbe la sapienza e l’intelligenza di capirlo. Siamo di fronte a un atto fondamentale, che può dire molte cose nei momenti di riforma e di rinnovamento delle comunità. In queste fasi cruciali, tutto dipende dal saper distinguere il serpente dall’arca. Operazione molto difficile, perché sia l’arca da conservare che il serpente da distruggere sono stati creati dallo stesso Mosè; le loro origini sono scritte negli stessi libri sacri, sono entrambi parte della storia e delle parole dei profeti. Le comunità iniziano un lento ma inesorabile declino quando si affezionano all’origine e non guardano al significato corrente delle proprie realtà e delle proprie persone. Una tradizione non va salvata solo perché creata dal fondatore o da un profeta. Perché se l’origine era ottima, ma l’uso è diventato perverso, nessuna riforma è possibile senza il coraggio di distruggere queste tradizioni, oggetti, regole e valori dall’origine santa, e allontanare quelle persone che, buone all’origine, si sono poi smarrite lungo la strada.

La storia delle comunità e dei movimenti ci mostrano, a questo riguardo, scenari in genere cupi. I casi più comuni sono quelli nei quali, assolutizzando l’origine, le comunità conservano sia l’arca sia il serpente, e così con il tempo il serpente divora l’arca. Questo esito è molto frequente perché l’origine del serpente è custodita, con l’arca, nella storia intima delle comunità, e distruggerlo è interpretato dalla maggioranza come tradimento dell’eredità. Forse a Ezechia, quando comunicò la sua decisione di distruggere il serpente, non pochi scribi e dottori avranno ricordato e letto il brano delle scritture del miracolo di Mosè nel deserto. Quel re fu giusto perché impedì che il passato uccidesse il futuro. Altre volte, invece, si distruggono sia il serpente che l’arca. Si avverte il rischio dell’idolatria per come è diventata una parte dell’origine, ma non sapendo o non riuscendo a distinguere si distrugge tutto il passato. Si perde così contatto anche con l’origine buona (l’arca), e si muore lentamente, come una pianta senza radici. Ma la morte più infelice è quella che si verifica quando le comunità, nelle riforme, conservano il serpente e distruggono l’arca. Qui si muore credendo di essere vivi, perché la comunità non si estingue ma si trasforma in comunità di adoratori del serpente Necustàn, pensando, spesso in buona fede, di adorare sempre lo stesso Dio dell’origine. La Bibbia, narrandoci la storia di Ezechia, ci dice che un altro esito è possibile: salvare l’arca e distruggere il serpente. È questa l’arte più preziosa di ogni processo di riforma, il talento cruciale di ogni riformatore vero. Ezechia fu un re molto amato: «Egli confidò in YHWH. Fra tutti i re di Giuda nessuno fu simile a lui, né fra i suoi successori né fra i suoi predecessori... Osservò i decreti che YHWH aveva dati a Mosè» (2 Re 18,5-7). Fu "fedele ai decreti di Mosè" anche perché ebbe la forza di distruggere il suo serpente di bronzo mentre custodiva la sua arca.

l.bruni@lumsa.it