Opinioni

Profezia è storia /17. Eredi ma non figli unici

Luigino Bruni sabato 28 settembre 2019

L’angelo della morte si lamentava con il Signore, perché la traslazione di Elia avrebbe scatenato le proteste di tutti gli altri esseri umani, che non possono sconfiggere la morte
Zohar, Il libro dello splendore

Le vocazioni dei profeti sono eventi misteriosi. In genere il profeta è chiamato direttamente da Dio, la sua vocazione avviene dentro una teofania, qualche volta accompagnata da visioni di angeli e da voci. Ma non è sempre così. Ci sono autentici profeti che non hanno mai sentito la voce di Dio che li chiamava per nome, che non hanno visto gli angeli. Hanno sentito soltanto un "sussurro di silenzio", o il grido dei poveri – e sono partiti. Altre volte è un altro profeta a chiamarli. Si trovavano lungo il mare di Galilea, stavano ritirando le reti. Passò un uomo diverso, forse un profeta, li chiamò, lasciarono l’acqua e divennero camminatori di terra. Anche Eliseo fu chiamato da Elia. I discepoli del Nazareno e di Eliseo non videro, diversamente da Isaia e Ezechiele, il cielo aperto. Videro un uomo, udirono solo la voce di un uomo, e in quella voce umana non mancava nulla per lasciare tutto. Queste sono le chiamate tipiche dei discepoli dei profeti, quando la vocazione inizia da una voce umana. Qualche volta alla voce del profeta si aggiunge quella di Dio; altre volte no, resta solo la voce di un uomo, di una donna. Eliseo sapeva che Elia era profeta di YHWH, sapeva che seguendo Elia avrebbe seguito Dio, ma a chiamarlo fu Elia, non il Dio di Elia. A Eliseo bastò quella voce umana per lasciare tutto e iniziare una vita nuova. Una chiamata che si è ripetuta molte volte nella storia, che si rinnova ogni giorno, quando la fede prende la forma della fiducia in una voce umana.

«Partito di lì [dall’Oreb], Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elia» (1 Re, 19-20). Le sequele profetiche sono corse veloci. Eliseo è chiamato mentre arava, quindi impolverato, sudato, con i piedi infangati. Lì lo raggiunge la vocazione. Da economista, e quindi osservatore e amante di lavoro e di impresa, provo sempre un brivido quando mi imbatto in una delle molte scene bibliche dove la vocazione accade in un luogo di lavoro. «Mentre nella barca riparavano le reti», «Parole di Amos, che era allevatore di pecore». Nella Bibbia non c’è luogo più "religioso" per le vocazioni di un campo arato, non ci sono oggetti più sacri di un giogo di buoi, perché nelle liturgie vocazionali anche l’odore del letame può essere incenso soave. Qui si trova una delle radici più profonde dell’umanesimo biblico, che ha liberato la voce di Elohim dai recinti del sacro e del religioso. E così, il 10 settembre del 1946, quella stessa voce liberata ha potuto chiamare Anjezë nel treno tra Calcutta e Darjeeling. In quel mezzo polveroso e profano "nacque" Madre Teresa: quella voce non aspettò che la giovane suora arrivasse al ritiro spirituale dove si stava recando; per chiamarla non pensò che la cappella di quel centro fosse un luogo più adatto di un vagone di treno.

Elia passa accanto ad Eliseo e gli getta addosso il suo mantello. In quel mondo il mantello era il primo simbolo del profeta, ma era anche qualcosa di più. All’inizio del Secondo libro dei Re, anche Elia è riconosciuto da Acazia, il successore di Acab, dal suo mantello: «"Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?". Risposero: "Era un uomo con un mantello di peli e una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi". Egli disse: "Quello è Elia"» (2 Re 1,7-8). La Bibbia è attraversata da molti mantelli. I figli di Noè con il suo mantello coprirono la nudità del padre ubriaco; la Legge di Mosè domanda di restituire prima di sera al debitore insolvente il suo mantello preso in pegno; Davide trova Saul e invece di ucciderlo gli taglia solo un lembo del suo mantello; e fu un mantello scarlatto quello che fu gettato addosso a Gesù davanti a Pilato, all’inizio della sua passione: l’Ecce Homo non aveva soltanto la tunica, aveva anche il mantello – entrambi ricevuti, entrambi donati. «Quando il Signore stava per far salire al cielo in un turbine Elia, questi partì da Gàlgala con Eliseo. Elia gli disse: "Rimani qui, perché il Signore mi manda fino a Betel". Eliseo rispose: "Per la vita di YHWH e per la tua stessa vita, non ti lascerò"» (2 Re 2,1-2). Elia prova per tre volte a lasciare Eliseo (a Gerico e al Giordano), ma Eliseo glielo impedisce. In queste righe rileggiamo il meraviglioso dialogo tra Noemi e Rut, quello tra Gesù e Pietro sull’amore e il gregge.

Nelle prime sue fughe nel deserto, Elia era riuscito a stare da solo. Quando si rifugiò, stanco e impaurito, all’ombra della ginestra, prima di partire aveva lasciato a Bersabea il suo "servo", ed era rimasto solo (Re 1, 19). Ora, mentre si avvia alla sua "morte", Eliseo invece non lo lascia solo. Sta qui una differenza decisiva tra un servo e un discepolo. Il servo obbedisce, non discute, non protesta. Il discepolo no, non può farlo: «Per la vita di YHWH e per la tua stessa vita«. In certe prove decisive – come l’ultima – i profeti vorrebbero restare soli. Sono risucchiati nell’anima da un misterioso turbine di dolore e di amore. In alcuni viaggi tutti cerchiamo la solitudine, ma spesso gli affetti naturali sono quell’antidoto prezioso che ci impedisce di sprofondare dentro le solitudini. I profeti non hanno questi antidoti-doni naturali. Ma i discepoli possono diventarlo, se restano discepoli e non diventano servi. Se il profeta ha attorno soltanto "servi" si ritrova ad affrontare queste notti senza fraternità e compagnia, in un dolore non-necessario che si aggiunge al molto dolore inevitabile. Il discepolo è anche questa compagnia estrema del profeta, una tenace presenza che segue il profeta in tratti dove nessuno riesce a inoltrarsi. Ecco perché se il profeta è un grande dono per il discepolo, forse il più grande su questa terra, anche il discepolo è dono per il profeta, forse il più grande.

In questa strana fuga di Elia, in questo suo ultimo miglio accompagnato fanno la comparsa dei misteriosi "figli dei profeti", che parlano con Eliseo: «I figli dei profeti che erano a Betel andarono incontro a Eliseo e gli dissero: "Non sai tu che oggi YHWH porterà via il tuo signore al di sopra della tua testa?". Ed egli rispose: "Lo so anch’io; tacete!"» (2 Re 2,3). Questi "figli di profeti" erano comunità di profeti, che vivevano ai margini delle città, spesso nei santuari. È probabile che anche Eliseo vivesse in una di queste comunità, fosse uno dei "figli". Anche lui dunque "sa" cosa lo attende, ma Eliseo non vuole ascoltare i dati e la cronaca: "tacete". Magari i figli dei profeti gli avranno suggerito di rispettare il desiderio-comando di solitudine di Elia. Ma Eliseo è diverso. Era parte di una comunità di figli, ma pur restando figlio e quindi fratello, Eliseo è il discepolo e l’erede. E infatti, «cinquanta uomini, tra i figli dei profeti, li seguirono e si fermarono di fronte, a distanza; loro due si fermarono al Giordano» (2,7). I figli dei profeti si arrestano sulla soglia, il discepolo continua il cammino. Ed è attorno all’eredità che si snoda l’ultimo incontro tra Elia ed Eliseo. Appena i due ebbero passato il Giordano, «Elia disse a Eliseo: "Domanda che cosa io debba fare per te, prima che sia portato via da te". Eliseo rispose: "La doppia parte del tuo spirito sia in me"» (2,9). La doppia parte era la parte di eredità che passava dal padre al primogenito. Eliseo sta chiedendo di essere l’erede di Elia - nientemeno!. Elia risponde: «Chiedi una cosa difficile. Sia per te così, se mi vedrai quando sarò portato via da te; altrimenti non avverrà"» (2,10). È una cosa difficile, ma possibile se sarà capace di vedere Elia mentre scompare. La possibilità di diventare erede primogenito di Elia sta nella capacità di Eliseo di reggere lo sguardo fino alla fine, di resistere di fronte alla sua scomparsa.

«Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo. Eliseo guardava e gridava: "Padre mio, padre mio, carro d’Israele e suoi destrieri!"» (2,11-12). Eliseo guarda e grida: "Padre mio"! Eliseo è il figlio, l’erede. Ha guardato fino alla fine. L’erede deve saper guardare la scomparsa del profeta. E poi diventare padre, raccogliere l’eredità. Nel mondo antico l’eredità diventava efficace solo dopo la morte del padre. Eliseo può diventare l’erede se accetta quella "morte". Deve accettare che il padre scompaia, diventare adulto, e continuare la corsa. Ogni vocazione profetica adulta inizia accettando la morte del padre. Eliseo diventa erede e profeta esso stesso nel momento in cui riesce a guardare in faccia la scomparsa di Elia, fino alla fine. Ma la prima e forse unica fatica del discepolo-figlio di un profeta è diventare padre e profeta restando sempre discepolo e figlio. E qui scopriamo qualcosa di importante nel rapporto profeta-discepolo-erede. Eliseo chiede di diventare l’erede. Qualche volta l’eredità profetica può essere chiesta e donata, può essere il frutto di una chiamata interiore dell’erede – è quanto accade spesso con i riformatori di comunità. Ma ciò che più importa è che l’eredità ha a che fare con lo spirito. Eliseo non chiede il mantello: chiede lo spirito. Il mantello non fa il profeta; è lo spirito a farlo erede del profeta e quindi profeta egli stesso. Siamo di fronte ad una rivoluzione nella profezia biblica. Dopo Eliseo continuerà la profezia come mestiere, come status sociale contrassegnato dal mantello. Ma ora accanto al profetismo istituzionale inizia una profezia nuova, quella nello spirito, che segnerà una stagione inedita e straordinaria, quella di Isaia, Geremia, Ezechiele.

Ma c’è ancora qualcosa di più. All’erede non passa tutto lo spirito. L’eredità è di soli due terzi. Nell’epoca della profezia spirituale, il primogenito che raccoglie il mantello del profeta non eredita tutto lo spirito del fondatore. Riceva una porzione doppia, ma non la quota intera. L’erede del profeta non ha più l’interezza dello spirito. Ne ha una parte, una buona parte abbondante, ma non il tutto. Perché una parte dell’eredità passa agli altri eredi, agli altri "figli" dei profeti. L’erede dei profeti è primogenito, ma non è figlio unico. Dopo la scomparsa del profeta, nessun uomo da solo possiede lo spirito intero. Per ereditare i tre terzi occorre tutta la comunità.

l.bruni@lumsa.it