Più grandi della colpa /11. La promessa dell'amico è vera
Pietro, tu mi ami [agape]? – Si, Signore, ti amo [philia].
Pietro, tu mi ami [agape]? – Si, Signore, ti amo [philia].
Pietro, tu mi ami [philia]?
Vangelo di Giovanni 21,15-17
L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti, in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate e le mogli, fratelli e sorelle, maestre, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, molto, gli amici e le amiche. L’amore umano non si limita agli esseri umani. Raggiunge gli animali, tocca la natura intera, sfiora Dio. Il mondo greco, per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, che non esaurivano le sue molte forme, ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il "ti voglio bene" detto alla donna amata dal "ti voglio bene" detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che il secondo non era né inferiore né meno vero del primo. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita. Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico.
Sono tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente nell’amicizia, dove la philia non è mai sola, perché è lei la prima ad avere bisogno di amici. È accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter durare per sempre, di risorgere dai nostri fallimenti e dalle nostre fragilità. Un’amicizia che è solo philia non è abbastanza calda e forte per non lasciarci soli sulle nostre strade. Ma è la philia che lega l’eros e l’agape tra di loro, e li affratella – anche Gesù ha avuto bisogno del registro della philia per dirci il suo amore. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo perdonato e che ci hanno perdonato settanta volte sette, quelli che quando non tornavano sono stati attesi e desiderati come una sposa o un figlio. Quelli che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci, quelli con i quali abbiamo mischiato molte volte le lacrime fino a fonderle nella stessa goccia salata.
Pochi dolori sono poi più grandi di quello per la morte di un amico – in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere, e non ricomincia più. La Bibbia, esperta in umanità, conosce molto bene la grammatica delle relazioni e dei sentimenti umani, e ci dona pagine meravigliose sull’amicizia. E così usa la stessa parola – ahavah – per descrivere l’amore tra padre e figlio, l’amore erotico e sensuale tra un giovane e una giovane, e anche l’amore tra due amici.
Con Gionata, figlio di re Saul, l’amicizia fa la sua comparsa nella Bibbia. Ed è una comparsa bellissima, un vero canto all’amore-amicizia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Il testo ce lo presenta conquistato anch’egli dal fascino di Davide: «Poi Gionata strinse un patto con Davide, perché lo amava come se stesso» (I Samuele 18,3). Un patto solenne, forse un "patto di sale", dove la non corruzione del sale diceva, nella Bibbia, simbolicamente "per sempre". La Bibbia sa cosa è un patto-Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Qualcosa di importante che disse anche il missionario maceratese Matteo Ricci (Lì Madòu), il cui primo libro in cinese fu sull’amicizia (nel 1595).
Come a fare da sfondo all’amicizia tra Davide e Gionata, dopo averci introdotto questo patto d’amicizia, il testo ci riporta a Saul, sempre più perseguitato dai suoi spiriti cattivi. Davide rientra in patria dopo aver sconfitto Golia, e gli si fanno incontro le donne della città, cantano e danzano al suono dei loro tamburelli: «Saul ne ha uccisi mille, Davide diecimila» (19,7). Le donne, un altro elemento che sarà una costante nella vita di Davide, fanno il loro ingresso solenne danzando, in fila, una dietro l’altra, con la tipica leggiadria e grazia dei movimenti del loro corpo. Celebrano la vittoria di Davide, ma soprattutto quella di YHWH. Come Miriam, la sorella di Mosè, che con il tamburello e il suo canto intonò la danza delle donne dopo l’attraversamento del mare. Saul disse: «"A Davide hanno dato diecimila e a me soltanto mille. A questo punto gli manca soltanto il regno". E così che da quel giorno in poi Saul guardò Davide storto» (18,8-9). E poi, sotto l’azione del suo spirito cattivo, scaglia la lancia contro Davide: «voglio inchiodare Davide alla parete»; ma «Davide lo schivò per ben due volte» (18,11).
È forte il contrasto tra gli occhi buoni di Gionata e quelli "storti" di Saul. L’invidia e la gelosia sono una faccenda di occhi. La gelosia e l’invidia sono sentimenti gemelli che si alimentano l’un l’altro, sebbene la seconda abbia una struttura binaria (Saul invidia il successo di Davide), mentre la gelosia è ternaria (Davide può portargli via il regno). Mentre si sviluppa la tragedia di Saul, il testo continua a mostrarcelo vittima dello spirito cattivo di YHWH, in balìa del suo triste destino di re scelto poi scartato. Un’alta forma di misericordia è quella degli scrittori nei confronti dei loro personaggi, che fa sì che la misericordia sulla terra sia maggiore di quella degli uomini e delle donne in carne ed ossa (e in questo gli artisti somigliano, un po’, a Dio, perché possono amare, perdonare e salvare le loro creature, in un atto di libertà assoluta). Ormai Saul è ossessionato da Davide, e inizia a tramare piani per la sua eliminazione. Gli promette in sposa la sua figlia maggiore (Merab), ma «quando giunse il tempo [due anni] Merab fu invece data in moglie a Adriel» (18,19). Ma l’altra figlia di Saul, Mical, si innamorò di Davide, e Saul fu contento, perché pensò: «Gliela darò, perché essa divenga per lui una trappola» (18,25) - un episodio che fa eco a quello di Giacobbe con le due figlie di Labano, Rachele e Lia. Saul chiede in dote «cento prepuzi filistei» (18,17), prezzo che Davide paga, con eccedenza (duecento prepuzi).
Mical, però, non divenne "una trappola" per Davide. Lo salvò invece dalla follia omicida di Saul, aiutandolo a fuggire nella notte in cui suo padre voleva ucciderlo: «Mical prese allora i terafìm [idoli] e li pose sul letto. Mise dalla parte del capo un tessuto di pelo di capra e li coprì con una coltre. Saul mandò dunque messaggeri a prendere Davide, ma ella disse: "È malato"» (19,13-14). Davide è protetto dall’amore che genera in chi gli sta vicino. Infatti, nell’altro racconto della sua fuga da Saul, Davide, d’accordo con Gionata, non si presenta al banchetto per la festa del novilunio. Quando Saul notò l’assenza, e Gionata diede la (falsa) spiegazione dell’assenza di Davide (recarsi a Betlemme), il re «si adirò molto con Gionata e gli gridò: «"Figlio di una scostumata, non so io forse che tu preferisci il figlio di Iesse, a tua vergogna?" (…) Rispose Gionata a Saul, suo padre: "Perché deve morire? Che cosa ha fatto?". Saul afferrò la lancia contro di lui per colpirlo» (20,30-33). Gionata affronta apertamente suo padre, difende le ragioni di Davide, rischiando così la sua vita. Avrebbe potuto non farlo. Fu invece leale. La lealtà è una componente essenziale di ogni amicizia autentica. Prende su di sé le conseguenze costose di un rapporto quando è possibile evitarle. Spesso è un parlare, qualche volta è un tacere, altre volte si manifesta nel non riferire all’amico le parole cattive degli altri che avevano il solo scopo di ferirlo. È agire come se l’altro fosse sempre presente.
Davide e Gionata si lasciano, rinnovando il loro patto d’amicizia e di unità: «Un patto tra te e me, con YHWH in mezzo a noi, tra la mia discendenza e la tua discendenza, per sempre» (20,24). Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. In questi patti d’amicizia, Dio passa "in mezzo" agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Il contesto del racconto dell’amicizia tra Davide e Gionata è quello di un patto sacro, di una alleanza solenne, di una fraternità spirituale. Ci porta alla mente Francesco, Chiara e fra Elia, Kico Arguello e Carmen Hernández, Francesco di Sales e Giovanna di Chantal, Chiara Lubich e Igino Giordani, Basilio e Gregorio, Don Zeno e mamma Irene, Gandhi e i suoi primi compagni nella "marcia del sale", e i tanti patti di amicizia, impliciti ed espliciti, che hanno generato sindacati, cooperative, imprese, partiti politici, resistenze, liberazioni. Patti affettuosi e casti, tutti intimi e inclusivi, legati e liberi, mai gelosi, sempre generosi e immensamente generativi.
Prima di salutarlo, Gionata aveva detto a Davide: «Andiamo ai campi» (20,11). La Bibbia conosce già questa frase. È quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi per salvarti. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata, ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli "inviti di Gionata" sono più numerosi degli "inviti di Caino", perché gli amici sono di più degli assassini. Un altro giorno, un altro amico, il più grande di tutti, fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma quegli amici lo rividero vivo, e noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e la promessa dell’amico è vera.
Buona Pasqua.
l.bruni@lumsa.it