Le nude domande/12. Sapiente è chi non si fa dio
La sapienza grida per le vie, fa sentire la sua voce per le piazze; essa chiama nei luoghi affollati e pronuncia i suoi discorsi all'ingresso delle porte in città.
Libro dei Proverbi, 1,20-21
La prima esperienza che fa chi ama la sapienza è la certezza di non possederla. La sapienza è una esperienza, una luce che si accende sul volto mentre accade dentro un rapporto. E che muore per mancanza di gratuità
La sapienza esiste. Su questa terra non c’è niente di meglio che desiderarla e cercarla. Ma resta lontana, perché se si avvicina troppo scompare o si trasforma in altro, più semplice e banale. È qualcosa di molto diverso da quanto noi oggi chiamiamo intelligenza, talenti, saggezza, competenza, cultura. Queste sono delle forme di capitali che possiamo e dobbiamo gestire, far crescere, coltivare, che possediamo e dei quali siamo responsabili. La sapienza è altro. Non è uno stock di cui possiamo disporre. Interagisce con i nostri capitali naturali e morali, ma è diversa. Ci sono persone capaci di sapienza non particolarmente intelligenti, non erudite, con poca esperienza. È un dono che, come tutti i doni, dipende poco dai meriti. Anche i bambini sanno dire parole di sapienza. È un soffio libero che soffia e si posa dove vuole. Come la bellezza, la verità, la santità, la felicità, può e deve essere cercata, ma non è mai il semplice risultato di un progetto intenzionale. Non è una virtù, è un dono. Arriva, ogni tanto, solo quando abbiamo perso la volontà di dominarla.
«Io “sapienza sapienza” dico. Ma ne sono lontano, e l’esserci è lontananza. È profonda profondità. Chi può comprenderlo?» (Qohelet 7, 23-24). La sapienza ci sfugge. La sua profondità è troppo profonda, la sua lontananza troppo lontana. Eppure, qualche volta, si fa presente, agisce, opera, trasforma la storia. E la possiamo riconoscere: «Chi è come il saggio? Chi conosce la spiegazione delle cose? Sapienza in volto d’uomo si fa chiarore. La durezza del viso trasfigura» (8,1).
La sapienza ha allora il suo tipico splendore, modifica i tratti del volto. Il viso splendente lo possono vedere gli altri che lo guardano – come Mosè, quando scese dal Sinai con le tavole della legge. La sapienza è una relazione, il suo splendore appare a chi la riconosce nel volto degli altri. Sotto il sole possiamo vedere i segni della sapienza dalla sua luce su un volto umano. Il testimone della sapienza è l’altro che vede la sua luce unica, che è uno specchio buono solo se è opaco e assorbe quella luce, che non deve restituirla al sapiente. È questa la sua povertà tipica. Il sapiente brilla di una luce speciale che si accende dentro un rapporto, una luce che scompare quando si guarda, narcisisticamente, in uno specchio diverso dagli occhi dell’altro che ha di fronte. Questa relazionalità costitutiva della sapienza è un dispositivo intrinseco di gratuità che impedisce al sapiente di appropriarsi della propria sapienza, pena la scomparsa del chiarore sul viso. Quando il sapiente inizia a vedere il proprio volto più luminoso di quello degli altri, a innamorarsi della sua luce diversa, la sapienza scompare per carenza di gratuità: «Quell’acqua non è per me» (Bernardette Soubirous).
Tutti i sapienti sono sempre sapienti provvisori. Emanano la luce della sapienza solo mentre ne fanno l’esperienza. E tra una esperienza di sapienza e un’altra sono poveri e indigenti come tutti i viventi sotto il sole, parlano le parole di tutti, hanno la luce di tutti i volti. Quindi la luce speciale della sapienza è effimera, vive solo dentro uno specifico rapporto e finché dura l’esperienza. Non è accumulabile, non la possiamo conservare nei forzieri. Se la sapienza è dono-gratuità, non esistono sapienti per mestiere: «Sapiente, resta nei limiti: perché vuoi rovinarti?» (7,16).
La sapienza è lontana, profonda profondità. Nessun sapiente è sapiente sempre e per sempre. La sapienza è un’esperienza. Siamo sapienti se e fino a quando sperimentiamo la sapienza, e per quante parole sagge e luminose abbiamo detto in passato, non abbiamo nessuna garanzia di continuare a dirle anche domani. Possiamo solo sperarlo. Non c’è sapienza senza il rinnovo del suo miracolo di gratuità, qui e ora.
Per questa ragione non è vero che i sapienti sono sempre i migliori testimoni delle parole che dicono. La sapienza vera che dice parole che trasformano la vita degli altri non sempre riesce a trasformare la vita di chi le dice. La sapienza eccede sempre il sapiente, per quanto grande e testimone sia. Non è la vita morale del sapiente la prova della sua sapienza, non è la sua testimonianza la verità sulle sue parole. La prova della presenza della sapienza è lo splendore del volto e delle sue parole. È questo uno dei grandi misteri della gratuità-charis sulla terra.
Da qui alcuni suggerimenti. Diffidiamo dei “sapienti” che indicano se stessi come modello per chi vede e segue il chiarore del loro volto, che mostrano la propria vita come misura della sapienza delle loro parole. E diffidiamo di chi crede e dice di possedere la sapienza, di coloro che si sentono i suoi padroni, che credono di averla sempre a portata di mano, che la considerano un loro capitale di cui disporre in ogni momento. Sono certamente dei falsi sapienti. La prima sapienza del sapiente è la consapevolezza umile di non essere lui/lei la sorgente della sapienza che dicono, ma di essere una fonte dalla quale, qualche volta e senza conoscerne le ragioni, esce dell’acqua diversa e sempre nuova. Sapere di essere un cieco che ogni tanto vede e fa vedere. Quando la sapienza si accende dentro uno specifico rapporto, il primo ad essere sorpreso, grato e stupito dalla sapienza che dice è chi si ritrova nel volto una luce che non conosceva prima, e diventa ascoltatore delle sue stesse parole, perché non sono soltanto sue. Qohelet è stato capace di donarci parole di sapienza perché non ha mai pensato di averla raggiunta.
C’è poi un terzo avvertimento: non è bene dire ai sapienti che il loro volto brilla di una luce diversa, perché li esponiamo alla tentazione più grande. Per non ridurre la luce sapiente sulla terra è richiesta gratuità nei sapienti, ma anche in coloro che li guardano e godono della loro sapienza. E se è difficile la prima gratuità, non meno ardua è la seconda. Se, infatti, la grande tentazione dei sapienti è innamorarsi e impossessarsi della propria sapienza, il loro desiderio di trasformare la luce vera ed effimera in luce finta e costante, coloro che contemplano e usufruiscono di quella sapienza sono sempre tentati dal voler istituzionalizzare il chiarore di quel volto, di non accontentarsi di un chiarore temporaneo, e così fare del sapiente un dio immutabile. Nel rapporto generativo di sapienza il rischio sempre attuale è l’idolatria.
La virtù del sapiente sta allora nel saper resistere dentro la specifica sofferenza di donare una luce che non conosce né controlla. La sapienza fiorisce solo tra pari, e solo tra poveri. Il regno della sapienza è il regno di questi poveri: di chi non si fa dio e di chi non vuole adorare un idolo. Per comprendere la visione di Qohelet della sapienza occorre tener molto presente la sua polemica con i movimenti “apocalittici” del suo tempo, popolato di visionari che intrattenevano folle incantate dai loro racconti di rivelazioni, di cui erano i soli padroni indiscussi. Nel mondo ci sono certamente persone più sapienti, altre meno, molte sono stolte. Ci sono anche persone molto sapienti, ma non esiste garanzia che la sapienza e la sua luce si attivino sempre nemmeno nelle persone più sapienti. Qohelet ama e cerca la sapienza, ma diffida dei sapienti quando diventano uno status o una categoria sociale, una élite che usa la luce del viso a “scopo di lucro”.
Ci sono luci del volto artificiali e fredde, tratti del volto e ammiccamenti modificati ad arte, che convincono soltanto i seguaci-adulatori del finto sapiente. Chi conosce la vita di persone che hanno sperimentato la sapienza, sa che la loro sfida più grande è stata conservare la sapienza con il trascorrere degli anni. Arriva un momento in cui diventa molto forte, quasi invincibile, la tentazione di appropriarsi della luce che donano agli altri. Ed è lì, molto spesso, che la luce inizia impercettibilmente a mutare luminosità, il volto a perdere gli antichi tratti. La gratuità scompare, e con essa i tuoi tipici frutti: libertà, gioia, presenza dei poveri. Un processo che coinvolge gli ex-sapienti e i suoi ascoltatori, che per questo è una trappola dalla quale è difficilissimo uscire, ma non impossibile.
Non dimentichiamo che Qohelet si presenta ai suoi uditori con il nome di Salomone (capitolo 1), il re più saggio, che però nell’ultima parte della sua vita subì un’involuzione. La complessa, ambivalente e misteriosa storia personale del re Salomone è uno sfondo essenziale per capire le parole di Qohelet sulla sapienza. Salomone, sapiente in gioventù, invecchiando fu “traviato dalle molte donne”, e adorò dèi stranieri (1 Re, 11) – un dato che può in parte spiegare la durissima critica di Qohelet alla donna: 7,26-28). Neanche l’uomo più saggio di tutti fu saggio sempre e per tutta la vita.
Tutti, però, possiamo essere sapienti, tutti abbiamo fatto nella vita esperienze di questa sapienza. Almeno una volta. Non è un bene di lusso, disponibile solo per alcuni spiriti eletti, animatori di club spirituali. La sapienza vera è popolare, vive dentro le case di tutti, nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nei mercati. È quella luce che vediamo accendersi sul volto di un amico che, povero come noi, raccoglie il nostro dolore e riesce a dirci parole di vita, che sempre ci consolano, qualche volta ci salvano. La luce che abbiamo visto molte volte nei volti dei nostri genitori, quando ci hanno donato quelle poche parole diverse con cui continuiamo ancora a camminare. E mentre si scaldiamo alla luce della sapienza – se la luce del volto dell’altro non ci riscalda non è la luce della sapienza – tutti facciamo l’esperienza della lontananza della sapienza, della "profonda profondità". E così continuiamo a desiderarla e a cercarla, con gratuità.
l.bruni@lumsa.it