La terra del noi / 3. L'antica solidarietà del "durante"
Il Palazzo del Monte di Pietà a Padova
Le istituzioni economiche delle nostre terre meridiane sono nate meticce, e tali sono restate finché il modo di fare economia nelle terre sotto le Alpi ha avuto tratti tipici e diversi, che oggi stanno scomparendo nella distrazione generale. Mentre, infatti, il Nord protestante distingueva, seguendo Agostino e Lutero, la “città di Dio” dalla “città dell’uomo”, e quindi il mercato dal dono, il contratto dalla gratuità, la solidarietà dall’impresa, il profit dal non-profit, l’Umanesimo latino rafforzava nell’Età della Controriforma la promiscuità tra questi mondi e ambiti. E così ha generato parroci gestori di cooperative e di casse rurali, famiglie imprenditrici, frati che sposavano l’altissima povertà mentre fondavano banche per i poveri.
Sono ormai molti a pensare che l’economia comunitaria, mediterranea e cattolica, quella “terra del noi” fatta di relazioni fitte e di legami caldi, dove i venditori ambulanti intonavano canti nelle piazze (l’abbanniata siciliana) e nei mercati si scambiavano soprattutto parole, non abbia più nulla di buono da dire; che sia tramontato per sempre quel capitalismo latino dove la solidarietà non era affidata al 2% dei profitti perché la solidarietà era inserita dentro le ordinarie dinamiche di imprese, banche e cooperative – la nostra era la solidarietà del “durante”, non quella del “dopo”. Quel mondo mediterraneo dove i salari non erano lasciati al solo gioco del “mercato del lavoro” perché quel “sale” era qualcosa di più e di diverso di una merce. La vita e il dolore avevano insegnato che quando il lavoro diventa merce il suo salario-sale diventa troppo sciocco per insaporire i pasti buoni e degni. E così, ciò che resta di economia comunitaria è sempre più visto e trattato come la vecchia Singer della zia o la Lettera 35 del nonno.
La comunità è ambivalente, lo sappiamo bene, perché è la vita vera a esserlo. E quindi la comunità è vita e morte, fraternità e fratricidio, amicizia e conflitti, abbracci e lotte, lacrime di gioia e di dolore, insieme. E una società che nei legami vede solo lacci, che adora l’individuo libero perché liberato da ogni relazione umana che non siano quelle del mercato, dei contratti e dei social (che poi sono la stessa cosa: il “mi piace” di Facebook è il “mi piace” del consumatore sovrano), non può che fuggire dalla comunità, da ogni comunità fatta di carne e sangue.
Eppure in tutto questo discorso, un discorso che sta diventando l’unico, ci deve essere qualcosa di sbagliato che nulla più della crisi ambientale ci sta ogni giorno di più rivelando.
In queste settimane stiamo vedendo che francescani avevano un’altra idea di persona, di comunità e di economia. Fecero la scelta, tutta carismatica, di andare a vivere nel cuore delle nuove città commerciali medioevali e rinascimentali, lasciarono le valli e scesero nelle piazze e divennero amici dei mercanti e dei cittadini, e spesso li capirono. E quando scrissero di economia e di moneta non guardarono il mondo dall’altezza dei trattati di teologia, scritti in genere da chi i mercanti e i banchieri veri non li vedevano mai (l’impressione che i teologi che scrivevano di economia facevano ai mercanti è molti simile a quella che fanno oggi i politici che scrivono leggi per una economia che non vedono). Si misero invece all’altezza bassa dei banchi dei mercati, e lì incrociarono gli occhi dei mercatores, e nacque un’altra economia, sorsero banche diverse, altri Monti.
Quei francescani furono capaci di innovare perché si sporcarono le mani con le faccende economiche, anche rischiando di commettere errori, perché la terra la cambia solo chi ci cammina sopra e non si rifugia della purità eterea dei cieli – i cieli nuovi non si trovano senza le terre nuove. E di errori ne fecero, come quello, grave, del tono anti-semita delle loro battaglie contro l’usura, sulla base dell’idea che fossero soltanto gli ebrei a prestare denaro a usura. Quell’idea era sbagliata, perché tanta usura, soprattutto quella grande, era fatta da buoni cristiani, ricche famiglie di banchieri che prestavano ai ricchi mercanti cristiani, ai cardinali e ai papi; agli ebrei restavano quasi soltanto i piccoli prestiti, seduti sui loro banchetti sotto la tenduccia col tappeto rosso. Lì tutti li vedevano, mentre i grandi contratti usurai dei potenti Strozzi, Medici o Chigi restavano invisibili ai più, frati inclusi – la grande finanza ha sempre avuto nell’invisibilità la sua forza.
Molti usurai cattolici fecero brillanti carriere politiche (Massimo Giansante, L’usuraio onorato, 2008), in una finanza europea che, diversamente dalla cattiva leggenda anti-giudaica, era anche, e in certi casi soprattutto, in mani cristiane (F. Trivellato, Ebrei e capitalismo: storia di una leggenda dimenticata, 2021).
Noi facciamo molta fatica a capire le ragioni profonde dell’antica lotta morale all’usura. Quella principale è un principio chiaro e forte: “non puoi lucrare sul tempo futuro, perché quello è il tempo dei figli e della discendenza”. Ecco perché la nostra generazione è una generazione usuraia, perché non sa «pensare al bene comune e al futuro dei figli» (Laudate Deum, n.60), quei «figli che pagheranno per i danni delle nostre azioni» (LD, n.33). Usuraio è chi oggi specula sul tempo dei figli. I poveri di oggi sono allora anche e soprattutto i bambini nati e quelli che nasceranno, che vanno protetti dalle nostre usure individuali e collettive.
Torniamo alla meravigliosa storia dei francescani, che oggi qui ad Assisi dove mi trovo per celebrare “Economy of Francesco” risalta con una luce abbagliante di futuro – Francesco è il nome di domani, non solo di ieri.
Quando con il Concilio di Trento si attenuò l’azione dei frati minori di fondazione dei Monti di pietà (che nelle città si trasformarono via via in banche), i frati cappuccini raccolsero il testimone e per oltre due secoli edificarono centinaia di Monti frumentari. I minori operavano prevalentemente nelle città del Centro-Nord, perché in quelle economie monetarie era essenziale aggirare l’usura con la grande intuizione (di origine ebraica) dei monti dei pegni che divennero i loro Monti di Pietà. Lì gli oggetti delle famiglie (vestiti, mobili, strumenti di lavoro, gioielli: quasi tutto, tranne le armi) venivano liquidati in moneta, che era essenziale in città dove vigeva la divisione del lavoro. Erano infatti pochi gli oggetti dati in pegno al Monte (impegnati) che venivano riscattati alla restituzione del prestito, perché quei Monti svolgevano una funzione mista di prestito-acquisto. In campagna e al Sud, invece, dove l’economia era soprattutto non-monetaria, nacquero i Monti frumentari, con la semplice e straordinaria innovazione del grano usato come moneta. Nelle campagne e in quelle economie di sussistenza erano pochi i beni da poter dare in pegno, e così le garanzie, che pur ci vogliono in ogni forma di finanza, erano quelle personali, come la fideiussione. Il credito tornava così alla sua antica etimologia di credere, di fidarsi e credere soprattutto in qualcuno, quindi nelle persone. In caso di insolvenza, i Monti di pietà vendevano gli oggetti impegnati, e i Monti frumentari si “incartavano”: «Non essendoci infatti alcun oggetto da vendere in caso di mancata restituzione del prestito, i monti si “incartavano”» (Paola Avellone, All’origine del credito agrario, p. 33). Le comunità sono fatte anche di queste fragilità.
Una grande, lunga e sconosciuta storia di amore, tutto evangelico e tutto civile, una delle pagine più luminose della nostra storia economica e sociale. Aggiungiamo allora ancora qualche pagina.
Eufranio Desideri (1556-1612), che diventerà san Giuseppe da Leonessa, fu uno di questi instancabili frati cappuccini costruttori di decine di Monti frumentari nei villaggi dei Sibillini e dei Monti della Laga, da Amatrice a Norcia, in quasi tutti i villaggi e le cittadine di quelle terre fragili. Così leggiamo nelle testimonianze dei suoi compagni: «Quando fra Giuseppe predicò a Borbona, io ero suo compagno e in quella terra c’era una grande carestia. Furono portate da due donne due ceste piene di pane. Arrivò in chiesa padre Giuseppe, benedisse il pane e ordinò di distribuirlo ai poveri: erano circa 200. Cominciammo la distribuzione del pane. Nel frattempo era accorsa molta gente, ma alla fine fu sufficiente per tutti, anzi avanzò e fu custodito nelle case: nella nostra ne restarono da tre o quattro infilate di dodici pagnotte l’una» (http://www.manoscrittisangiuseppe.it/la-vita/). Le moltiplicazioni dei pani e pesci hanno accompagnato la nostra storia cristiana, si sono ripetute mille volte in quei luoghi dove «due donne» o «un ragazzo» hanno donato qualcosa, e qualcun altro ha creduto ancora nel miracolo del pane per i poveri.
Fra Giuseppe fu proclamato santo da papa Benedetto XIV nel 1746, il Papa che riprese il nome di Benedetto XIII, cioè quel Francesco Orsini di Gravina, il “Papa agricoltore”, ispiratore di centinaia di Monti frumentari. L’anno prima Benedetto XIV aveva scritto la Vix Pervenit, la prima enciclica papale che rendeva legittimo l’interesse sul prestito. In quella enciclica si menziona anche il prestito in «frumento» (VP ,3.V), a testimonianza di quanto presente e importante fosse ancora l’esperienza dei Monti frumentari. E, sebbene sia un documento passato alla storia come la legittimazione del prestito a interesse, la quasi totalità dell’enciclica è invece dedicata a ribadire l’illiceità dell’usura e del prestito a interesse, che è legittimo solo in particolari e precise condizioni (varianti degli antichi “danno emergente” e “lucro cessante”) e «da questi derivi una ragione del tutto giusta e legittima di esigere qualcosa in più del capitale dovuto per il prestito» (VP, 3.III). Per il resto ribadisce che «ogni guadagno che superi il capitale è illecito e ha carattere usuraio» (VP, 3.II), che dovrebbe far «vergognare» chi così guadagna – era quello un mondo dove l’etica della vergogna ancora era efficace. Qualche anno dopo, all’interno della stessa tradizione civile e spirituale, così scriveva Antonio Genovesi: «La regola: tu hai il diritto di dare a interesse a’ tuoi fratelli; l’eccezione: posto che non sieno poveri» (Lezioni di Economia civile, 1767, II, cap. XIII, §20). Ai poveri non si chiedono gli interessi: basta la restituzione del capitale. Tutto questo quell’antica tradizione civile la sapeva bene, noi lo abbiamo dimenticato.
Il francescanesimo ci ha donato molte cose, alcune stupende. Tra queste la dignità del povero, che prima di essere aiutato va stimato, perché senza la stima di ciò che il povero è già non si crea nessun buono non-ancora: «Mi ricordo che la Domenica, quando di solito entra nei nostri Conventi grande quantità di pane bianco, fra Giuseppe mi chiese perché portavo il pane scuro ai poveri che bussavano alla porta. E con grande enfasi mi disse: “Voglio che tu dia ai poveri quello bianco”». Il valore del pane bianco per i poveri lo poteva capire solo Francesco, e i suoi amici di ieri e di oggi.
l.bruni@lumsa.it