Opinioni

L'esilio e la promessa /3. Tra il mantello e il cuore

Luigino Bruni sabato 24 novembre 2018

Il fatto paradossale è che il sacro si manifesta, e di conseguenza si limita e cessa di essere assoluto. È questo il grande mistero, il mysterium tremendum: il fatto che il sacro accetta di limitarsi
Mircea Eliade, Miti, sogni e misteri

Siamo cercatori instancabili di consolazioni. Ne abbiamo un tale bisogno che le barattiamo quasi sempre con le illusioni. La profezia è una grande generatrice di consolazioni vere, ma siccome non sono né scontate né in saldo, noi ci mettiamo in coda nei grandi magazzini dove abbondano le illusioni a buon mercato. Le consolazioni non illusorie dei profeti convivono infatti con una esigenza assoluta di verità, arrivano solo dentro questa verità offerta a prezzo-valore pieno.
«Figlio dell’uomo, prendi una tavoletta d’argilla, mettila dinanzi a te, incidici sopra una città, e disponi intorno ad essa l’assedio: rizza torri, costruisci terrapieni, schiera gli accampamenti e colloca intorno gli arieti» (Ezechiele 4,1-2). Dopo le prime visioni, Ezechiele ora riceve il comando di realizzare una sorta di plastico per rappresentare l’assedio di una città. E una volta terminata l’opera sotto gli occhi certamente sorpresi dei suoi connazionali non dice «questa è Babilonia», come forse i suoi compagni esiliati si attendevano e speravano, ma «questa è Gerusalemme» (5,5). È proprio la città santa che sta per essere assediata dai babilonesi. Nessuna consolazione per chi, seguendo gli oracoli dei falsi profeti, voleva credere nella inespugnabilità della città di Davide, perché protetta dal suo Dio diverso.
Il primo gesto profetico pubblico di Ezechiele è dunque un segno, il suo primo messaggio è un simbolo. Per generare la sua prima profezia compone una scultura, quindi usa mani, corpo, terra e materiali vari che ha a sua disposizione. E così ci dice anche qualcosa sul nesso profondo che esiste tra arte e profezia. Ogni artista condivide alcuni caratteri della profezia, e viceversa. Profeti e artisti sono capaci di plasmare gesti, suoni e parole perché loro stessi sono stati prima plasmati e continuano a essere plasmati ogni giorno. Sono vocazione, linguaggio non verbale, mani e materia, dialogano con un daimon, parlano con tutto il corpo. In un tempo, come il nostro, povero di veri profeti, se vogliamo conoscere alcune note vere della profezia possiamo trovarle negli artisti.

Anche il "lavoro" del profeta, come tutti i lavori, si impara facendolo. Ezechiele quando riceve la sua vocazione profetica si trovava da alcuni anni a Babilonia, in un popolo dalla religione complessa e ricca, con classi sacerdotali e codificazione di pratiche e riti. Quella cultura aveva prodotto molte forme di divinazione, di magia e riti che facevano largo uso di simboli, e i suoi veggenti non dovevano apparire troppo diversi dai profeti in Israele. Ezechiele conosceva bene i culti di quel popolo e degli altri popoli circostanti, e non è da escludere che all’inizio della sua attività profetica abbia subìto l’influenza di quell’universo sacro. Nel gesto plastico di Ezechiele si intravedono tracce di una pratica comune a molte culture arcaiche, e che ritroviamo anche in alcune tradizioni bibliche (Numeri 21,8; II Re 13,29-31). È la cosiddetta tecnica omeopatica (cioè "i simili si curano con i simili"), un insieme di azioni e liturgie imitative, che miravano a operare a distanza tramite rappresentazioni simboliche della persona o della realtà che si voleva modificare – esempi noti sono la statuetta infilzata con spine per dare morte o dolore a una persona distante, o versare ritualmente acqua sulla terra per invocare la pioggia, rappresentare nelle grotte scene di animali catturati per propiziare la caccia. Si credeva che il simile (piccolo) agisse sul simile (grande), che si potesse produrre un effetto semplicemente rappresentandolo e imitandolo.
I profeti non sono angeli. Sono uomini e donne, vivono dentro lo spirito del loro tempo. La profezia biblica nasce da tradizioni più antiche. Parte da lì, ma arriva ben oltre, innovando radicalmente quella tradizione. Questo meticciato non è un handicap del profetismo di Israele, ma un elemento che ne aumenta bellezza e valore, perché ci dice la natura storica della Bibbia e della sua rivelazione. Al tempo stesso, i gesti profetici presentano anche alcune grandi novità. Innanzitutto, non sono le parole e le azioni di Ezechiele, ma il comportamento ostinatamente infedele del popolo a creare l’assedio e poi la distruzione di Gerusalemme: «Essa si è ribellata con empietà alle mie norme più delle nazioni e alle mie leggi più dei paesi che la circondano» (5,6). Il profeta con i suoi simboli fa prendere coscienza del nesso causale tra le azioni del popolo e le loro conseguenze.

Ma l’innovazione fondamentale sta nel ruolo che svolge la persona del profeta nei gesti che compie. Ezechiele annuncia dolori e sventure per gli altri dopo averli sperimentati e sentiti nel suo corpo: «Mettiti poi a giacere sul fianco sinistro e io ti carico delle iniquità d’Israele. Per il numero di giorni in cui giacerai su di esso,... per trecentonovanta giorni. Terminati questi, giacerai sul fianco destro ed espierai le iniquità di Giuda per quaranta giorni» (4,4-6). Incarna gli anni dell’esilio assiro di Israele e poi quello babilonese di Giuda, restando fermo come paralizzato sul fianco, come un fachiro o uno yoghi. È lui la statuetta che viene conficcata nella carne viva perché YHWH possa lanciare un messaggio al suo popolo. A differenza dello sciamano o del veggente, il profeta non è solo un mediatore, è il messaggio fatto carne. Ezechiele applica a sé stesso la logica omeopatica: soffre in piccolo (giorni) la stessa sorte che il popolo patisce in grande (anni): «Io traduco gli anni della colpevolezza di Israele in un numero di giorni [390]. Tu dovrai portare la colpa della casa di Israele per tutto questo tempo» (4,5). È lui il primo simbolo, perché "getta insieme" il cielo e la terra. Ne Il Conte di Montecristo Giovanni Bertuccio, dopo aver salvato un neonato dalla morte, lo consegna in segreto in un ospizio; ma taglia in due parti la fascia che lo avvolge trattenendone con sé una, per poterlo un giorno riconoscere facendo combaciare i due lembi strappati. Il profeta è, insieme, la parte che resta nella culla e quella che viene portata via. Sta dalla parte di Dio e dalla parte del popolo, parla di cielo alla terra e di terra al cielo. È, insieme, nostalgia di Dio e nostalgia di ritorno dell’uomo, è taglio indigente della parte mancante ed essenziale.

Il simbolo giunge al suo terzo movimento: «Prendi intanto grano, orzo, fave, lenticchie, miglio e spelta, mettili in un recipiente e fattene del pane: ne mangerai durante tutti i giorni in cui tu rimarrai disteso sul fianco... Anche l’acqua che berrai sarà razionata: un sesto di hin [un litro], a ore stabilite... Cuocerai sopra escrementi umani davanti ai loro occhi» (4,9-12). Il messaggio è chiaro: «Il Signore mi disse: "In tale maniera mangeranno i figli d’Israele il loro pane impuro in mezzo alle nazioni fra le quali li disperderò"» (4,13). Durante l’assedio (e l’esilio) il cibo e l’acqua sono scarsi e razionati, e non si possono più rispettare le norme cultuali di purità. Il sacerdote Ezechiele invoca il tema della purità, e YHWH gli consente di sostituire gli escrementi umani con quelli animali (5,15), che riduce, ma non elimina, l’impurità. Negli assedi e negli esili molte cose si riducono e si perdono. Anche la religione viene purificata dall’impossibilità di rispettare le norme che separano il puro dall’impuro. Gli assedi e gli esili arrivano anche per liberarci dagli aspetti rituali delle religioni, per trasformare la purità cultuale in purezza di cuore, per ritrovare la fede sulla morte delle pratiche religiose. Ci tolgono il tempio e i sacrifici per donarci luoghi aperti e larghi come il cielo dove adorare «Dio in spirito e verità».

Il messaggio ricorre infine a un ultimo quarto linguaggio: «Figlio dell’uomo, prendi una spada affilata, usala come un rasoio da barbiere e raditi i capelli e la barba. Poi prendi una bilancia e dividi i peli tagliati. Un terzo lo brucerai sul fuoco in mezzo alla città al termine dei giorni dell’assedio. Prenderai un altro terzo e lo taglierai con la spada intorno alla città. Disperderai al vento l’ultimo terzo, mentre io sguainerò la spada dietro a loro» (5,1-2). Ezechiele deve rasarsi la testa e il volto, che nella cultura biblica sono atti vergognosi di auto-mortificazione. Ancora il suo corpo come "sacramento" della parola che annuncia. Il messaggio è anche qui rivelato: «Un terzo dei tuoi morirà di peste e perirà di fame in mezzo a te; un terzo cadrà di spada attorno a te e l’altro terzo lo disperderò a tutti i venti» (5,12).
Una parte dei capelli e dei peli della barba verrà però salvata: «Conservane solo alcuni e li legherai al lembo del tuo mantello» (5,3). Anche per Ezechiele, un residuo del popolo si salverà, perché custodito nel lembo del mantello del profeta, cucito sulla sua veste. La profezia è anche, e forse soprattutto, un luogo dove trova riparo un resto durante le grandi crisi, gli assedi, gli esili.
I profeti sono coloro che, per onestà alla voce, ci annunciano la fine e la devastazione, ma mentre ce la annunciano soffrono con noi e prima di noi, e poi creano un piccolo spazio per raccogliere un resto per seminare il futuro.
Quando la vita ci assedia e ci esilia, molte cose, sacre e profane, vengono rase al suolo, annientate dalla furia degli eventi. Molto si perde e muore, ma un resto della nostra anima può salvarsi se riesce a trovare e a riconoscere un profeta vero, e poi si lascia legare al lembo del suo mantello. Questi profeti degli esili sono spesso paralizzati, legati, muti, dicono parole dure che non capiamo. Ma ci dicono anche che qualcosa della nostra storia si può ancora salvare, che un piccolo resto vivo si salverà, nascosto tra il mantello e il cuore.

l.bruni@lumsa.it