L'anima e la cetra /8. L'irrinunciabile custodia
Ogni riga era irta di parole di molte sillabe che egli non comprendeva. Era seduto sul letto e aveva davanti a sé il dizionario che era più grosso del libro… e per qualche tempo accarezzò il progetto di non leggere altro che il dizionario, fino ad essere padrone di tutte le parole che conteneva
Jack London, Martin Eden
Molte povertà sono anche povertà della parola. Una indigenza che impedisce di chiamare per nome il dolore proprio e quello degli altri. Questa povertà narrativa qualche volta precede le povertà materiali e morali, altre volte le segue, sempre le accompagna. I "cafoni" e gli oppressi di ogni tempo sono stati cafoni e oppressi anche e soprattutto per le parole che non sapevano dire e per quelle che dicevano i potenti e che loro non riuscivano e non riescono a capire. Ecco perché ogni povertà che vuole risorgere deve imparare e reimparare a parlare, finché, almeno un povero inizierà a dare un nome ai demoni della propria indigenza. Sta anche qui l’invito bellissimo che ci rivolgevano i nostri nonni: "Luigino studia"; sapevano bene che conoscere le parole dei signori era il primo passo di una liberazione.
La Bibbia, maestra e custode della parola, ne conosce le sue molte nature, ne ha visto il paradiso, ne ha intravisto l’inferno. L’ha vista, in principio, mentre creava il mondo; l’ha rivista diventare bambino, e si è stupita e commossa. Inseguendola tra la genesi e l’eskaton ha imparato la grammatica ambivalente delle parole umane. L’ha vista, bugiarda, sulla bocca di Giacobbe, poi su quella di Davide, il re più amato ma capace di uccidere con una parola menzognera, e infine su quella, bellissima, di Maria. E poi l’ha accompagnata in silenzio fino al monte dove la parola divenne grido. Ha imparato, tra molte difficoltà e fallimenti, a riconoscerla buona sulla bocca dei profeti veri e cattiva su quella dei falsi profeti. Ha capito che la parola è il contatto tra Dio e l’uomo, è il luogo dove l’umano e il divino parlano bocca-a-bocca e l’uno diventa sempre più simile all’altro. Siamo "immagine" di Elohim in molte cose, ma soprattutto lo siamo quando diamo ordine al mondo dicendolo con le parole, quando risuscitiamo noi stessi e gli altri con una parola finalmente diversa, quando feriamo e uccidiamo gli altri e noi stessi con una parola sbagliata.
Eravamo già immagine di Dio nelle grotte e nelle tende mobili del neolitico, ma lo siamo diventati di più per i miliardi di parole buone e belle che abbiamo imparato a ripeterci gli uni gli altri, ogni giorno. Solo gli dèi e gli uomini sanno parlare. Esiste, poi, un rapporto intimo ed essenziale tra la parola e la verità, che forse solo la Bibbia (e qualche poeta immenso) ci può spiegare. La verità è l’anima della parola. Come l’anima non appare in superficie, non si fa vedere, per molti non esiste. Quando la parola perde contatto con la verità perde la sua anima – o la vende al diavolo. La parola è la protagonista del Salmo 12, un salmo sulla parola e quindi sulla profezia: «Salvami, Signore! Sparita è la lealtà; è scomparsa la sincerità tra i figli dell’uomo. Altro non fanno che mentirsi l’un l’altro, labbra adulatrici parlano con cuore doppio» (12,2-3).
Lealtà, sincerità, menzogna: questioni di parole. La sensazione certa del salmista è che la lealtà sia scomparsa dalla terra – o almeno dalla sua vita. È questa una tappa che arriva puntuale nella vita dell’uomo di fede, in particolare nei profeti. Perché i profeti, vivendo dentro del rapporto con la parola ricevuta e ridonata, sono particolarmente sensibili alla verità delle parole proprie e degli altri. Sono parola fatta carne, sempre in bilico tra il nulla e l’infinito, testimoni della forza-debole di un soffio effimero eppure capace di vincere la morte. Sono sentinelle in grado di vedere, nella notte, l’anima delle parole. Chi prega assomiglia molto al profeta: entrambi vivono della verità della parola, entrambi sono mendicanti dell’eco di parole sussurrate o gridate, entrambi non sono padroni né delle parole né, tantomeno, del ritorno dell’eco. E così sono radicalmente vulnerabili dalla manipolazione della parola, dalla menzogna. Qualche volta si convincono di essere circondati solo da menzogna. E non è raro che tra le lealtà e sincerità sparite dalla terra il profeta inserisca anche le proprie. Perché non fa parte del repertorio del profeta onesto sentirsi l’unico giusto superstite al mondo: la prima non-sincerità che avverte è la propria. Non è facile uscire da queste trappole di depressione spirituale, ma non è impossibile.
Il salmista vede e canta un aspetto cruciale della menzogna: "mentirsi l’un l’altro". Quando la menzogna prende possesso di una comunità – alcuni tipi di menzogna assumono la forma del virus – diventa reciproca. L’opposto del comandamento nuovo ("amatevi gli uni gli altri") non è solo il conflitto: è anche la menzogna reciproca. Perché come l’amore "non perdona" l’amato generando reciprocità, neanche la menzogna, spesso, perdona chi ne è toccato. Si diffonde, si moltiplica, cerca i propri simili, produce una sua perversa compagnia dove ciascuno si nutre delle menzogne degli altri e delle proprie – poche cose sono capaci di nutrirci più delle nostre bugie, che a forza di raccontarle finiamo per credere vere: perdiamo peso morale giorno dopo giorno e non ce ne accorgiamo. Una tipica forma di menzogna stigmatizzata dal salmo è l’adulazione: le "labbra adulatrici". La conosce anche il libro dei Proverbi: «Chi adula un amico, tende una rete ai suoi passi» (Pr 29,5). Tra le molte forme di adulazione, quella dell’amico è infatti particolarmente pericolosa e subdola.
Questa adulazione non è quella del falso amico (c’è anche quella). Diversamente dal falso-amico ruffiano, l’amico adulatore non ci loda in cerca di propri interessi, ma per una strana forma di pietà per noi. Sa di dire una parola non vera, ma la dice ugualmente per farci piacere. L’adulazione è molto frequente nelle richieste di stima: non abbiamo ragioni vere per stimare sinceramente un’opera o un’azione di un amico, ma decidiamo di soddisfare la sua richiesta donandogli una stima falsa. Preferiamo l’assonanza emotiva alla verità della parola. E così tendiamo "una rete ai suoi passi". Perché invece di scavare dentro quel rapporto e cercare una ragione vera di stima sincera, ci accontentiamo di una moneta falsa che spacciamo per buona. I rapporti iniziano a regredire, la parola perde verità, quell’amicizia perde la sua anima. E, come dice il Salmo, il cuore si sdoppia: un cuore sincero che tace e un cuore non-sincero che loda. Si sdoppia il cuore, si ammala l’amicizia, e col tempo il cuore bugiardo contamina e guasta quello buono. Chi trova un amico trova un tesoro; chi ne trova uno non adulatore ne trova due.
Ma la grammatica della parola contenuta nel Salmo non finisce qui: «Quanti dicono: "La lingua è la nostra forza, le nostre labbra sono con noi: chi sarà il nostro padrone?"» (12,5). La lingua è la nostra forza: eccoci dentro un’altra dimensione essenziale della parola. È quella legata direttamente al potere, a chi, sentendosi padrone delle parole e della loro anima crede di non avere nessun padrone oltre se stesso. Chi sa parlare e usare le parole domina e opprime chi non sa parlare o parla male - lo vediamo ogni giorno. Il divieto di pronunciare il nome di Dio invano, racchiuso nel decalogo (Es 20,7), è anche dispositivo di protezione contro i tentativi di conoscere tutte le parole e quindi comandare su tutto e tutti. È la tentazione della magia, ma anche di chi vuole diventare padrone di tutte le parole. La lotta idolatrica della Bibbia si traduce anche nel rendere una parola inaccessibile e impronunciabile; perché se una parola non può essere comandata con la parola allora i suoi padroni saranno sempre padroni parziali anche quando si sentono padroni assoluti. Il nome nella Bibbia dice sempre mistero.
Qui il salmo denuncia allora la tentazione, sempre forte e a tratti invincibile, di chi usa le parole per costruire un suo culto, una sua religione. Se "parola" è uno dei nomi di Dio, allora il potere sulle parole è sempre potere religioso. Sta qui anche la radice dell’antico e sempre attuale progetto di Babele, dove la costruzione di un linguaggio unico e totale diventa lo strumento per l’edificazione di un impero assoluto, senza "nessun padrone". Ogni impero, incluso il nostro, inizia pretendendo di dare un nome a quell’unica parola impronunciabile, e così si trasforma in una nuova religione-idolatria più piccola e meno libera di quella che voleva superare occupandone tutti i nomi. Le religioni dove i padroni conoscono tutte le parole, dove non ne resta neanche una nascosta nel mistero della nube, diventano imperi che volendo pronunciare tutti i nomi non riescono a dirne bene nessuno.
È l’uomo religioso il primo ad essere tentato dal voler mangiare il frutto dell’albero della conoscenza di tutti i nomi della terra e del cielo. L’Adam può e deve dare il nome agli animali ma non può dare il nome a Dio. Questo è l’unico nome può essere solo rivelato e poi velato di nuovo dallo stesso rivelatore, perché nella custodia del nome di Dio c’è anche la custodia dei nostri singoli nomi. «Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri, ecco, mi alzerò – dice il Signore –, metterò in salvo il mio testimone"» (12,6). Il salmista prega che il Signore venga il soccorso del suo testimone. Il profeta è il testimone del povero oppresso dal potere delle parole. Chi, per vocazione, ha una competenza sulla parola, chi ne conosce l’anima, la può – la deve – usare per testimoniare a favore di chi non conosce abbastanza parole per salvarsi.
Si comprende così il valore civile della profezia: i profeti sono coloro che prestano parole a chi deve difendersi dai padroni di tutte le parole. Scrittori, poeti, giornalisti, politici, sindacalisti, artisti, avvocati partecipano alla stessa funzione profetica di Isaia e Amos se sono testimoni degli oppressi dalla parola nei tribunali della storia. Il povero è colui che non conosce abbastanza parole per poter chiamare tutti gli spiriti della sua vita, e non conoscendo il loro nome non riesce a scacciarli. I profeti, e i loro amici, chiamano per nome i demoni che minacciano i poveri, e poi li mandano via. E così la parola, ogni giorno, ridiventa carne e ripete a Lazzaro: "Vieni fuori".
l.bruni@lumsa.it