L'anima e la cetra /11. È nostra la libertà più grande
Chi sa se il deserto che lasceremo, un giorno, non avrà questa voce, questo lamento umano del vento, infinitamente ripetuto: mah-’enòsh? Che cos’è un uomo? Che cosa fu l’uomo? Che cosa è stato essere uomo?
Guido Ceronetti, Il libro dei salmi
«I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio» (Salmo 19,2-5). I cieli narrano. La Bibbia è tutta parola, è tutta narrazione; è custode della parola di Dio detta in parole umane. È gelosa sentinella di racconti straordinari e diversi, dove le parole sono state capaci di dire l’indicibile, farci sognare Dio fino a quasi vederlo.
La Bibbia ha amato e venerato la parola, al punto di rischiare di farla diventare un idolo, violando il divieto d’immagine e di idolatria contenuto tra le sue pagine. Uno dei dispositivi teologici e poetici che le ha consentito di non diventare l’idolo più grande e perfetto è la presenza in essa di linguaggi di Dio non verbali. Della gloria di Elohim parlano, infatti, anche i cieli, il firmamento, il sole, la notte. Non siamo solo noi umani a parlare di Dio, non siamo i soli affidatari e trasmettitori di messaggi divini. La Bibbia ci dice che ci sono meravigliosi racconti di Dio scritti senza parole umane. Dio ci parla con la bocca e con le parole dei profeti, ci ha scritto lettere d’amore con lo stilo dello scrittore sacro, ha composto canti stupendi con la poesia e la cetra di Davide. La Bibbia però sa che il linguaggio umano non è l’unica lingua usata nei colloqui tra Elohim e noi – «Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce». Narrazioni più antiche di quelle umane, che hanno risuonato attraverso l’universo prima che vi arrivasse l’uomo, e che continuano oggi a risuonare nelle galassie infinite; a dirci che quelle narrazioni sono anche per noi, ma non sono soltanto per noi: non siamo l’unico senso della creazione. I loro racconti gli astri non li scrivono soltanto per noi. Qui l’umiltà e la grandezza dell’Adam si incontrano e si armonizzano.
Ma nel momento in cui la Bibbia testimonia le narrazioni delle stelle e le riconosce come linguaggio di Dio, anche quel linguaggio non-verbale diventa parola di uomo che narra la non-parola di Dio. E il Salmo diventa un incontro di narrazioni: i cieli narrano all’uomo la gloria senza usare parole umane, e le parole umane, nel narrare queste narrazioni non-verbali, tramutano in parola ciò che parola non è. Stupendo. Allora quando leggiamo la sua parola più folle – «la parola si è fatta carne» – in quella parola dobbiamo includere anche le non-parole del sole, delle stelle, del cosmo – il verbo nella Bibbia sono tutte le parole della terra e tutte le "parole" del cielo.
Forse i primi racconti scritti dagli uomini sono stati tentativi di narrare i racconti della natura scritti senza parole. Come il bambino impara a parlare ripetendo le parole della madre, noi abbiamo imparato a parlare ripetendo le "parole" dei racconti delle stelle. Molti popoli antichi erano così affascinati da questo linguaggio cosmico da chiamare dèi il sole e le stelle. La Bibbia, invece, pone il suo Dio al di sopra degli altissimi astri. Gli astri non sono Dio, ma sue creature – i cieli narrano la gloria di Dio. Non sono portatori di un messaggio proprio, ma significanti di altri significati, anch’essi "parole" pronunciate. Sta qui la differenza tra questo Salmo e i canti cosmici che ritroviamo nella letteratura babilonese o egiziana. Il sole non è Dio, ma è ospite di Dio: «Là pose la tenda per il sole, uno sposo che esce dall’alcova, un prode contento di slanciarsi per la sua via» (19,5-6). È il suo atleta migliore, che corre ogni giorno da oriente a occidente, andando incontro alla notte per passarle il suo messaggio, per dirle, ogni mattina, parole teofore: «Parte dal lontano dei cieli, all’altro estremo termina il suo arco» (19,7). C’è tutta la Bibbia nel Cantico di Frate sole.
Non abbiamo ancora ripreso fiato per questa visione cosmica del verbo, detta con una poesia che qui cogliamo in uno dei suoi momenti sorgivi all’aurora delle civiltà, ed ecco che il Salmo ci sorprende con un secondo colpo di scena: «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima» (19,8). Come mai questo salto dalla sinfonia cosmica alla Torah, dal cielo alla Legge? Un salto talmente inatteso che non pochi esegeti hanno ipotizzato che i salmi all’origine del Salmo 19 fossero in realtà (almeno) due, fusi poi insieme da un redattore finale.
In realtà, l’unità del Salmo ce la svela la Bibbia stessa. Per l’uomo biblico il firmamento e la Torah sono entrambi capolavori di YHWH. Quando quell’antico salmista alzava gli occhi verso l’alto era incantato dall’armonia e dalla bellezza del cielo; ma poi provava lo stesso incanto quando guardava la terra e vi trovava la Torah. L’ordine cosmico è garantito da leggi intrinseche impresse dal Creatore nel creato, e l’ordine morale nasce dall’obbedire alle leggi e ai precetti della Torah. Lo scopo è lo stesso, l’identica provvidenza: «I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore;... sono più preziosi dell’oro, di molto oro fino, più dolci del miele e di un favo stillante» (19, 9-11). Il salmista provava la stessa "gioia del cuore" quando vedeva, in ogni aurora, risorgere il sole e quando leggeva "onora il padre e la madre"; restava tramortito dal firmamento e dal "non uccidere". Perché sapeva che le stelle e la Torah erano dono per lui, erano solo e tutta gratuità. Senza questa doppia bellezza non entriamo nell’umanesimo biblico, non comprendiamo il suo più grande profitto: «Per chi li osserva è grande il profitto» (19,12). «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me»: solo con il Salmo 19 davanti agli occhi si coglie il senso dell’ultima pagina della Critica della ragion pratica di Kant, una pagina tra le più bibliche di tutta la filosofia.
Quell’antico poeta sapeva poi un’altra cosa: «Le inavvertenze, chi le discerne? Assolvimi dai peccati inconsapevoli. Anche dall’orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia potere» (19,13-14). Sopra il sole, gli astri obbediscono, docili e mansueti, alle leggi che YHWH ha scritto per loro; trasmettono il loro messaggio, non trasgrediscono, non peccano. Sotto il sole no, perché sulla terra l’Adam è stato creato con una libertà morale unica che lo rende il grande mistero dell’universo. Solo l’uomo e la donna possono decidere di non seguire le leggi d’amore pensate per loro da Dio. E in questo sono superiori al sole e alle stelle. Sta qui il grande mistero dell’uomo biblico: l’immagine di Dio lo rende libero al punto di poter negare le leggi pensate per la sua felicità (le nostre infelicità più importanti sono quelle che scegliamo sapendo che sono infelicità). Siamo più liberi del sole, e quindi meno ubbidienti. E torna il nostro destino tremendo e stupendo custodito dal Salmo 8: «Che cosa è l’uomo? Eppure...».
Tra i peccati umani troviamo qui sottolineati quelli fatti per inavvertenza e quelli inconsapevoli. Anche se il Novecento ci ha mostrato un inconscio non innocente, la categoria dei peccati inconsci è distante dalla nostra sensibilità moderna, molto centrata sulle intenzioni. La Bibbia non è un’etica, anche se nei suoi libri ci sono molte etiche. L’umanesimo biblico non può essere inquadrato in una o l’altra delle teorie etiche moderne (responsabilità, intenzioni, virtù...), ma è certamente più interessato di noi alle conseguenze degli atti. Perché ciò che più gli interessava era l’equilibrio del corpo sociale e la cura dell’Alleanza con Dio. Se allora qualcuno commetteva un peccato e provocava un danno, era a questo squilibrio nei rapporti sociali che la Bibbia soprattutto guardava. Il Decalogo inizia con il ricordo della liberazione dall’Egitto: non con un principio etico astratto, ma con un fatto. La dimensione storica della fede biblica si manifesta anche nel grande valore che attribuisce ai comportamenti, alle azioni, ai fatti, alle parole. Basti pensare, per un esempio, al vecchio Isacco che dona per errore/inganno la sua benedizione a Giacobbe; quando si accorge del suo errore non può più revocare quella benedizione sbagliata, perché quelle parole avevano generato la realtà mentre la dicevano, e avevano operato indipendentemente dalle condizioni soggettive di Isacco e dei suoi parenti (Gen 27). I peccati sono fatti che agiscono e cambiano il mondo, con una vita propria distinta dalle intenzioni che li hanno generati. Se oggi ti dico una parola brutta e domani ti chiedo scusa, quelle scuse potranno agire sul futuro, ma non potranno cancellare la realtà di dolore che quella parola ha generato nel cuore dell’altro in quelle ore trascorse tra il peccato e il pentimento. Nella Bibbia poi la parola è talmente seria che produce effetti da sé medesima, anche quando non ne siamo coscienti, anche in quelle "ore" che passano e noi non chiediamo scusa perché non siamo consapevoli dei danni che stiamo procurando – i danni inconsci possono essere maggiori proprio perché non arrivano mai il pentimento né le scuse.
Chiedere allora a Dio (e alla comunità) di essere assolti per i peccati inconsci nasceva dalla consapevolezza che i danni che procuriamo sono maggiori delle nostre cattive intenzioni. L’uomo biblico lo sapeva, e ristabiliva l’equilibrio. Noi ne abbiamo perso coscienza, non chiediamo perdono a nessuno, ci copriamo dietro la buona fede, e accresciamo gli squilibri.
Il Salmo 15 aveva lodato la sincerità. Il Salmo 19 ci dice che la sincerità qualche volta non basta. Perché nella vita c’è anche il valore delle conseguenze di azioni sbagliate compiute in buona fede. La Bibbia è un continuo e prezioso esercizio di auto-sovversione, che è la cura più efficace contro ogni ideologia. Incluse le molte piccole ideologie del nostro secolo nate sulla morte delle grandi ideologie del secolo scorso.
Il Salmo 19 ci ha rapiti al settimo cielo e poi ci ha riportato sulla terra, alle nostre inavvertenze e colpe inconsce, per dirci qualcosa di importante che non dovremmo più dimenticare: un rapporto sanato ha lo stesso valore di una galassia.
l.bruni@lumsa.it