L'analisi. Quell'infinita controversia che oppone l'onesto e l'utile
Non è affatto semplice ricavare un’unica e coerente etica economica dai testi biblici e dai vangeli. La parola più corretta sarebbe forse ambivalenza, ma a chi volesse trovare una critica radicale nei confronti dell’economia e del denaro non mancherebbero certo le pezze d’appoggio. Di certo le trovarono i primi cristiani, incoraggiati e sostenuti da una cultura tardo romana che aveva maturato una profonda diffidenza verso la mercatura e i mercanti.
La polemica anti-mercantile del mondo romano dipendeva da molti fattori, tra questi la capacità dei mercanti di individuare e sfruttare a proprio vantaggio il momento favorevole, una virtù privata intesa come vizio pubblico. Il contadino conosce solo il passato e suoi segni sulla terra, il mercante scruta invece gli astri con la sua ragione insidiosa, in cerca di un vantaggio da afferrare al volo persino leggendo i movimenti degli astri, i venti e le perturbazioni atmosferiche (Plinio il vecchio, Storia naturale).
Il primo capitale del mercante era – ed è – una strana competenza di futuro. Il suo grande asset è la capacità di anticipazione, di rendere in una misteriosa alchimia il futuro presente. Sta qui la sua speculazione, cioè vedere meglio e di più. La specula era un luogo più alto dove ci si poneva per guardare lontano. Ma specula era anche la spia, era anche l’esploratore, figure sempre misteriose e inquietanti perché avevano un accesso speciale ai segreti della realtà. Era dunque il rapporto con quel bene particolare che è l’informazione, soprattutto quella che non si vede, che rendeva il mercante a un tempo affascinante e temuto.
«Un ricchissimo mercante aveva il dono d’intendere il linguaggio degli animali» (L’asino, il bue e l’agricoltore, ne Le mille e una notte, dove la parola mercante/i compare 211 volte). Nella fiaba popolare italiana, La fanciulla e il mago, un mago si finge un mercante che trasforma anelli di ferro in anelli d’argento. E nelle leggende medioevali i Re magi erano a un tempo maghi e mercanti.
Questo uso privato dell’informazione era poi legato al rapporto speciale tra il mercante e la parola, confinante con la magia. Il mercante è un esperto del mondo di Poros (il dio greco del corteggiamento, uno dei genitori di Eros), un seduttore sempre tentato di usare la parola per abbindolare i clienti, per incantarli parlando – incantesimo e incentivo sono due termini simili. Solo i maghi e i mercanti (e forse i sacerdoti) sanno usare diversamente le parole, per incantarci e per incatenarci. Una parola mercantile quindi sempre esposta al rischio della manipolazione della realtà. Ieri e oggi, nei mercati si assiste a un grande commercio di parole, tra realtà e menzogna, ed è la parola la prima merce sugli scaffali.
Il mondo antico pensava dunque che il mercante, grazie al potere delle parole e delle informazioni, senza aggiungere nulla alle merci quindi senza creare valore aggiunto, ingannava i clienti abusando della loro mancanza di informazione. In sostanza, ogni venditore era un bugiardo, il mercato una fiction dove si attribuiva valore al nulla.
Emblematico dell’atteggiamento medioevale verso le informazioni dei mercanti è un racconto di Ottone da Cluny del X secolo. Il conte Géraud d’Aurillac in viaggio fu avvicinato da alcuni mercanti veneziani colpiti da una sua stoffa di particolare pregio. Chiesero quanto l’avesse pagata a Roma ed esclamarono: "A Costantinopoli costa molto di più!". Questa informazione gettò il conte nello sconforto, e dopo qualche giorno il venditore di Roma ricevette da Géraud una somma pari alla differenza col prezzo di Costantinopoli (Cit. in Andrea Giardina, Le merci, il tempo, il silenzio).
Mille anni prima, nel De Officiis Cicerone riferisce un dibattito tra due filosofi stoici, Diogene e Antipatro. C’è una grave carestia a Rodi e un mercante esporta da Alessandria a Rodi una grande quantità di grano. Questi sa che altri mercanti sono salpati da Alessandria alla volta di Rodi con navi cariche di grano, e che quindi il prezzo del grano a Rodi scenderà presto. La questione: deve dire ai suoi clienti dell’arrivo delle navi oppure tacere e vendere la sua merce al prezzo più alto? "Secondo Antipatro bisogna dire tutto, il compratore non deve ignorare niente di ciò che sa il venditore; secondo Diogene, invece, il venditore ha l’obbligo di rendere noti i difetti della propria merce, ma tutto il resto lo può fare, "senza frode". Diogene risponde ad Antipatro: «Altro è nascondere, altro è tacere: non tutto quello che ti sarebbe utile ascoltare io sono obbligato a dirti». Quindi Cicerone conclude: «Questa è la controversia che spesso si crea tra l’onesto e l’utile. La mia opinione è dunque che il mercante di grano non deve tenere nascosto niente a Rodi». E il mercante che nasconde le informazioni «è un uomo furbo, opaco, astuto, malizioso, ingannatore, frodatore» (III, 49-57). Per Cicerone, dunque, avvantaggiarsi di un’informazione nascosta non è lecito. E siccome il mercante fa profitti proprio grazie a queste speculazioni informative, la sua attività è disonesta.
Queste tesi anti-commercio di Cicerone (e di Seneca) ebbero un peso enorme in tutto il Medioevo, grazie anche ad Ambrogio e a molti Padri occidentali che le ripresero: «Chiunque tu sia non potrai, da uomo, che odiare l’indole del bottegaio» (Gregorio di Nissa, Contra usurarios, IV sec.). Si rafforzò, inoltre, l’idea classica che il lavoro buono è quello agricolo, quello immorale invece è quello del mercante, del commerciante, e persino dell’artigiano (in quanto venditore, e il vendere è sempre moralmente dubbio).
Inoltre, spostarono le qualità dei commercianti dalla terra al Regno dei cieli, e tutte le virtù mercantili le applicarono metaforicamente alla vita spirituale e religiosa, creando una sorta di conflitto tra l’uso buono della logica mercantile (per il cielo) e quello sbagliato (per gli affari mondani). Il vero mercante è il divin mercante, il Cristo, che ha pagato con il suo sangue il prezzo della salvezza. E così per tutto il primo millennio la visione negativa del commercio e del mercato crebbe e si radicalizzò.
Importante fu un commento (parziale) al Vangelo di Matteo, attribuito erroneamente a Giovanni Crisostomo: L’Opus imperfectum in Mattheum (V secolo), che ebbe una grande influenza per tutto il Medioevo. Nel commento dell’episodio della "cacciata dei mercanti dal tempio", leggiamo: «Nessun cristiano deve essere mercante o, se vuole esserlo, sia scacciato dalla chiesa… Chi compra e vende non può farlo senza essere spergiuro». E poi aggiunge: «Chi dunque compra una cosa per rivenderla integra e immutata a scopo di guadagno, proprio questi è il mercante scacciato dal tempio». Infine, riprende l’opposizione città/campagna: «"E andarono chi al suo campo, chi al suo negozio", in queste due parole si comprende tutta l’attività umana: onesta è l’agricoltura, e mestiere disonesto davanti a Dio è invece l’attività mercantile"».
Bisognerebbe chiedersi come fu possibile che nel Medioevo l’attività mercantile continuasse. Forse perché la vita è più grande dei libri dei teologi, e perché la gente normale sa che senza commercio il mondo sarebbe più povero, triste e brutto. Ma anche per qualcos’altro che iniziò con il XII-XIII secolo.
Questa novità si chiama Francesco. Tra i teologi francescani un ruolo decisivo lo ebbe il francese Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298). Olivi è un autore importante anche per una tensione iscritta nella sua biografia. Apparteneva al ramo più radicale del francescanesimo, un grande esponente della dottrina dell’altissima povertà. Alcune sue tesi furono condannate, alla sua morte i suoi libri bruciati, e nel 1318 il Papa ordinò la distruzione della sua tomba. Ma, al tempo stesso, Olivi fu decisivo per un cambiamento etico nei confronti dell’attività del mercante. Non usando la ricchezza per sé si trovò nella giusta distanza etica per poterla capire.
Nel suo Trattato sulle compere e sulle vendite (fine XIII sec., edizione italiana a cura di A. Spicciani et al.), nella prima questio (domanda) leggiamo: «Le cose possono essere lecitamente e senza peccato vendute a più di quanto valgano o comprate a meno?». Per Olivi la «risposta parrebbe affermativa», perché «altrimenti quasi tutta la categoria dei venditori e dei compratori peccherebbe contro la giustizia, dato che quasi tutti vogliono vendere caro e comprare a meno». Risposta di una semplicità disarmante, ma che in realtà sfida la tesi secolare su cui si basava la condanna del commercio.
Nella questio 4 affronta direttamente il tema dell’informazione: «Il venditore è tenuto a dire o a mostrare al compratore tutti i difetti della cosa venduta?». Subito dice che «la risposta sembra affermativa», in linea con la dottrina classica. Ma poi nello sviluppo del suo ragionamento arriva ad ammettere delle eccezioni, una delle quali risulta molto importante: «Ingannare infatti è qualcosa di più dell’occultare. Non sempre quindi chi tace una verità inganna». Cicerone è confutato, e con lui la sua ostilità al mestiere del mercante.
E nella questio 6 si chiede: «Chi compra una cosa qualunque per rivendere ad un prezzo maggiorato senza averla né trasformata né migliorata come di solito fanno i mercanti, pecca mortalmente o almeno venialmente?». E la sua risposta: «Non è necessario pensare che nella mercatura sia incluso il peccato, benché in pratica ciò sia assai raro e difficile». E conclude: «Negli affari si presentano varie opportunità e occasioni per vendere e comprare vantaggiosamente le cose; e anche questo deriva dall’ordine della Provvidenza di Dio, come gli altri beni umani. Quindi se uno guadagna, ciò proviene da un dono di Dio piuttosto che dal male». Lo scambio commerciale e i guadagni visti come segno della presenza della Provvidenza nel mondo: solo dalla specula dell’altissima povertà si può vedere questa economia.
Il suo ragionamento finisce contestando l’autorità del commento di Matteo del Crisostomo (che coraggio!): «Senza dubbio non c’è da dargli retta in questa sua affermazione». E così termina: «Sicuramente un’argomentazione del genere non può essere ricavata dal passo evangelico riportato: lì Cristo si scaglia genericamente contro tutti coloro che vendono e comprano nel tempio; non è però necessario pensare che tutti fossero mercanti».
Quanto ci sarebbe bisogno oggi di teologi e intellettuali con questa libertà di spirito! Soprattutto avremmo bisogno di porre domande inverse a quelle di Olivi: fin dove è lecito speculare sulle informazioni nascoste? Fin dove è lecito ai mercanti di incantarci con le loro parole? Sappiamo più distinguere la fiction dalla realtà nel nostro mercato globale? E se a forza di anticipare il futuro nel nostro presente lo stessimo esaurendo, privando così i nostri nipoti del loro presente?
l.bruni@lumsa.it
(9 - continua)