In ascolto della vita. La «Laudato si'» del profeta
L’illusione che la salvezza venga dai potenti, dai faraoni, dagli imperi, è sempre stata una tentazione radicale e fortissima dei popoli, delle comunità, di ognuno di noi. Quando l’angoscia sale e lo scoraggiamento ci corteggia, quando la disperazione che sta arrivando proietta la sua ombra sempre più lunga sulle nostre giornate e iniziamo a preferire la notte per non vedere quell’ombra minacciosa, puntuale giunge la tentazione, con insistenza crescente, di cercare un potente cui mendicare la nostra salvezza. E puntuale arriva anche la delusione, che era già presente mentre invocavamo disperati quell’ultimo aiuto, ma preferivamo illuderci per continuare a vivere ancora un poco. Come i nostri amici disposti a prosciugare il conto in banca pur di illudersi che l’ultima cura sperimentale extra-protocollare li potrà salvare. Beati coloro che hanno almeno un amico che li salva da queste illusioni, e dona loro la propria fraternità come ultimo viatico vero. I profeti sono questi amici che possono salvarci da queste grandi illusioni, e che non vengono ascoltati, perché i capi, il popolo, noi, continuiamo a preferire le illusioni alla verità: «Ahi sciagura! Il soccorso lo cercano in Egitto. Contano sui cavalli, un brulichio di carri, un nugolo di cavalieri li rassicurano! E non confidano nel Santo d’Israele» (Isaia 31,1).
Il primo dono che ha chi crede nella promessa biblica è la protezione dall’illusione di confidare negli imperi per la propria salvezza. Imparare a dire "tu non sei Dio" ai grandi della terra, ai potenti delle nostre comunità e imprese è il grande insegnamento dei profeti, di cui c’è un bisogno estremo proprio nel nostro tempo, dove l’espulsione di Dio ha prodotto un’invasione di "proci" che concorrono tra di loro per prendere il suo posto. Tutte le eliminazioni di Dio hanno sempre generato una moltitudine di falsi dei, che non vedono l’ora di decretare la sua morte al solo scopo di sostituirsi a lui. Preferiscono un paradisetto artificiale e striminzito a quello vero, pur di poter somigliare un pochino a quel Dio che tanto dicevano di odiare. Non capiamo il significato della disubbidienza della Genesi (cap.3) se non prendiamo sul serio quel «voi diventerete come Dio». I profeti sono l’anti-serpente, perché non ci ingannano promettendoci la divinità, e ci donano l’antidoto al veleno della falsa promessa – quel serpente è anche immagine di ogni falsa profezia. Il principio profetico è allora anche principio mariano, e viceversa. Sebbene quasi tutti i profeti biblici siano maschi, esiste una profonda sintonia carismatica tra profezia e genio femminile: la loro parola genera vita, vede e annuncia l’avvento di bambini, piange, consola. Quando nelle comunità manca la dimensione profetica, scompare la dimensione femminile, la gerarchia diventa pura gestione del potere, la legge si mangia lo spirito.Non abbiamo ancora sottolineato abbastanza l’importanza dello spirito (ruah) nella vocazione e missione dei profeti. Lo "scarto" tra psiche e ispirazione, tra l’io e la sua eccedenza, molte culture l’hanno chiamato spirito; alcune gli hanno attribuito un’origine divina. Il cristianesimo, al culmine della rivelazione biblica, ne ha fatto un’esperienza talmente concreta da chiamarlo Persona.I profeti sono esperti e maestri dell’azione dello spirito nel mondo. Lo conoscono, sanno che è all’opera ogni giorno nell’universo. Lo sentono operante e vivificante dentro di loro, ospite dolce dell’anima. È lo spirito la voce che li ispira, guida, chiama, incoraggia, consola. A volte possono avere il dubbio che YHWH sia in azione nel mondo, che sia sveglio e non si sia "addormentato", che si sia adirato e allontanato dalla terra; ma finché restano profeti non possono negare di essere abitati dallo spirito, che non coincide con la loro intelligenza, con la loro creatività, che non è una loro produzione. È un fuoco che arde e la legna non è loro. Una presenza tutta intima ma tutta distinta dalla loro anima. La riconoscono, l’ascoltano, le ubbidiscono, finché restano profeti.Ci sono profeti che hanno perso la fede per anni, decenni, ma nessun profeta può perdere questo rapporto con lo spirito che lo abita, perché è parte della sua natura e della sua vocazione. Possono forse dimenticare il suo nome, nelle notti dell’anima chiedere che smetta di parlargli dentro, ma non possono dubitare mai di questa esistenza. Possono diventare ciechi di Dio, non vederlo più per molto tempo, ma non possono diventare sordi dello spirito. È lo spirito che salva la fede del profeta. Il primo incontro con la voce fuori col tempo diventa lontano, distante, tende a evaporare. Lo spirito invece cresce, e li alimenta. Quando un profeta riceve la vocazione, viene associato a YHWH, passa dalla sua parte. Non lo vede più di fronte perché gli è accanto, al suo fianco, dentro. Non capiamo la profezia se non entriamo dentro questo grande mistero, di chi parla in nome di una voce che non vede ma che lo guida dentro. I profeti biblici sanno, o sperano, che chi gli parla nell’anima è lo spirito di YHWH, ma il mondo è stato sempre popolato di altri profeti veri che davano altri nomi a quella voce, e che spesso non sapevano né sanno di essere amici di Isaia. Che sono coscienti che c’è una voce che li abita, e se sono onesti sanno che quel qualcosa che parla e chiama dentro è altro da loro.I profeti terminano la loro funzione (si pensi a Geremia) quando non sentono più questa presenza dentro, quando lo spirito li lascia, non parla più e non li fa parlare più. Possono durare a lungo senza ricordare il volto della prima voce, ma non restano profeti neanche un minuto quando la voce interna si spegne. È solo così che termina il loro canto, che sentono che il loro compito è finito, che non erano padroni della voce, che era tutta gratuità.I profeti parlano poco dello spirito, perché è la loro intimità, di cui sono segreto tabernacolo. Ma quando riescono a dare parole a quell’abitante del loro cuore ci donano i versi più belli: «Ma infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una foresta. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre» (32,15-17). Solo quando quel soffio spirituale, che il profeta ha ricevuto dentro come dote della sua vocazione, diventerà il respiro del popolo, quando non sarà soltanto la voce del cuore di pochi ma scenderà dall’alto e riempirà la terra, allora la giustizia, la libertà, la felicità, la pace saranno la condizione stabile dell’umanità e della creazione tutta. Un giorno ancora molto lontano, ma l’esperienza interiore del profeta è caparra dell’avvento di quel giorno di beatitudine cosmica: «Beati voi! Seminerete in riva a tutti i fiumi e lascerete in libertà buoi e asini» (32,20).Una beatitudine che includerà il lavoro umano e il nostro rapporto con gli animali. Isaia, dando voce all’anima biblica più profonda, è cosciente che la subordinazione degli animali ai nostri gioghi è una condizione imperfetta, dovuta alla durezza della terra, del lavoro e del cuore degli uomini. Troppo rari sono i campi fecondati dalla generosità del limo del Nilo e dei grandi fiumi di Babilonia. In tutti gli altri il frumento arriva dal sudore della fronte, dal lavoro degli schiavi, dall’asservimento degli animali. Nei campi al di fuori dell’Eden il frutto della terra non nasce, in genere, dall’amicizia operosa e dalla reciprocità spontanea tra l’Adam, il suolo e gli animali. L’asino che diventa strumento di produzione non è la vocazione dell’onagro che corre libero sui monti, il giogo del bue non può essere la sua prima o unica vita: non stanno al mondo soltanto per essere al nostro servizio. Hanno valore in sé stessi: sono una «cosa buona» arrivata sulla terra prima di noi, a fare compagnia al loro Creatore. Nessuna creatura ha dignità se è solo funzionale all’uomo. E le schiene ricurve e spezzate dal lavoro – tantomeno quelle degli schiavi, che affrancano dalle fatiche i loro padroni – non possono essere il destino della terra. È questo il grande messaggio dello Shabbat, che non è un’oasi libera in un mondo di uomini e animali schiavi, ma segno e profezia della nostra vocazione più vera. Isaia lo sa, ce lo dice, ce lo ricorda, e ci invita a edificare giorni che siano sempre più vicini al suo Sabato.
Oggi avremmo tutte le risorse e tutta la tecnologia per raddrizzare la schiena dei lavoratori, per liberare gli schiavi, per lasciare in «libertà buoi e asini», e invece le schiene sono sempre spezzate, gli schiavi aumentano, gli animali ancora sfruttati o, errore non meno grave, idolatrati. La tecnologia invece di liberarci dalle antiche servitù rischia di asservirci a macchine sempre più padrone della nostra anima, del nostro tempo, delle nostre relazioni, divoratrici del nostro silenzio. E, dal cuore dei nostri giorni, la Bibbia continua a ricordarci che «in principio non era così», e che quindi «verrà un giorno» quando non sarà più così. I profeti ne sono certi. Noi possiamo almeno sperarlo, nell’attesa operosa di quel giorno quando lo «spirito scenderà dall’alto». E nel tempo che va dal «nostro giorno» a «quel giorno» possiamo riconoscere la voce dello spirito sulla bocca dei profeti.Isaia aveva iniziato il suo libro contrapponendo la ribellione e la disubbidienza del popolo alla docilità e alla mansuetudine del bue e dell’asino («Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia»: 1,3). Tutto il suo libro è popolato di animali, protagonisti nei suoi versi più belli. Ora, dopo il lamento sulle città distrutte, l’apocalisse, i canti della sentinella e della pietra scartata, ecco tornare questi due animali. Due animali docili che la tradizione cristiana ha voluto mettere come compagni della notte più bella della storia. Ma non li ha voluti legare a un giogo, né ha posto una soma sul loro dorso. Ce li ha donati a riposo in una mangiatoia, che respirando donavano il loro soffio (ruah) caldo a un neonato e alla sua mamma. In quella grotta c’era tutta la Bibbia, c’era Isaia con la sua promessa di un altro giorno, di un altro lavoro, di un altro rapporto con la creazione, finalmente fraterno. Laudato si’.l.bruni@lumsa.it