Il segno e la carne / 14. L'altro nome della fraternità
Il sapiente ha un’idea delle cose considerate buone o cattive ben diversa da quella della gente comune
Lucio A. Seneca
De constantia sapientis
Il profeta Osea - .
I profeti biblici sono molto diversi da noi. Non tanto per la distanza cronologica sulla linea del tempo, ma per la mancanza delle categorie per poterli capire. Diventano poi del tutto incomprensibili se li leggiamo usando le idee di religione, laicità, politica, economia. La religione, ad esempio, intesa come l’insieme di culti, norme, sacrifici, liturgie che un popolo edifica per comunicare con la propria divinità e celebrarla, non è l’ambiente del profeta. La guarda invece con occhio molto critico, la considera un ostacolo all’unica cosa che davvero gli importa: che il popolo ascolti la voce di Dio e si converta anche dalla propria religione. Non è uomo religioso, è uomo o donna dello spirito, e sa per vocazione che il mezzo più normale che gli uomini e le donne religiose usano per non obbedire alla voce di Dio è proprio la religione, che diventa troppo spesso il luogo dove nascondersi da YHWH per non dover rispondere alla sua domanda tremenda: "Uomo, dove sei?".
Ecco perché la prima critica dei profeti è indirizzata proprio alle pratiche religiose, ai sacrifici, al culto, di ieri e di oggi: «In Gàlgala si sacrifica ai tori, perciò i loro altari saranno come mucchi di pietre nei solchi dei campi» (Osea 12,12). L’altare di Gàlgala (o Gilgal) non era un altare idolatra. Su quelle pietre si offrivano vitelli al Dio di Israele - era stato eretto da Giosuè (Gd 5,9). I sacrifici non sono allora stigmatizzati dai profeti perché offerti agli dèi sbagliati, agli idoli (anche, qualche volta), ma perché anche quando il popolo li utilizza per adorare il Dio vero lo fa diventare un idolo come tutti gli altri. La grande parola di Osea – «Hesed voglio, non sacrificio» (6,6) – è l’anima di tutto il suo rotolo, di tutti i libri dei profeti, è un’anima essenziale di tutta la Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, che completa e corregge anche le pagine bibliche sui sacrifici. La Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, ha cercato sopra e prima di tutto di raccontarci un altro Dio che superasse la materialità delle vittime e del sangue che erano al centro delle religione antiche e naturali, senza riuscirci del tutto. Neanche il Nuovo Testamento è stato sempre capace di sviluppare l’anima profetica anti-sacrificale, e in alcuni suoi testi ha letto la morte del Cristo come "sacrificio", certamente diverso da quelli antichi, ma sempre dentro la logica sacrificale della vittima e del sangue, nonostante i vangeli ci parlassero di un Gesù che ha fatto di tutto per evitare la croce, fino alla fine, rivelandoci un Dio-Padre amore-agape-hesed totalmente al di fuori del registro sacrificale. Ma il problema più grande è che i sacrifici piacciono a noi, soddisfano i nostri bisogni religiosi, ci danno l’illusione di controllare qualcosa della divinità, di orientare le sue grazie verso i nostri desiderata; e così finiamo per creare un’idea di Dio che ama i sacrifici, costruiamo una teologia a immagine e somiglianza dei nostri bisogni religiosi.
Nel grande capitolo dodici di Osea troviamo poi un altro discorso molto forte sulla ricchezza: «Canaan tiene in mano bilance false, ama frodare. Èfraim ha detto: "Sono ricco, mi sono fatto una fortuna; malgrado tutti i miei guadagni, non troveranno in me una colpa che sia peccato"» (12,8-9). Continua la critica radicale (che parte cioè dalla radice) di Osea agli israeliti, la costante e tenace accusa di corruzione atavica del suo popolo, che risale già ai primi tempi dell’alleanza, quando dopo l’Esodo e gli anni di deserto gli ebrei giunsero a Canaan e da quelle popolazioni indigene appresero subito i vizi. Noi, in genere, pensiamo che le popolazioni cananee fossero primitive e involute dal punto di vista economico e sociale, anche perché la Bibbia ci mostra questi popoli dalla prospettiva del nemico militare e religioso (adoratori di stupidi idoli). In realtà dall’archeologia oggi sappiamo che la regione cananea (che con i romani diventerà la Palestina) già dall’età del bronzo antico (2300-2400 a.c.) aveva una fiorente civiltà agricola, e una vita culturale e religiosa avanzata. I cananei avevano sviluppato un’intensa attività commerciale con l’Egitto e col Libano, tanto che in alcuni libri biblici la parola "cananeo" è sinonimo di mercante. Israele non scoprì quindi il mondo commerciale nell’esilio in Babilonia, lo aveva assimilato secoli prima quando arrivò nella terra promessa - non è da escludere che alcune delle tribù ebraiche fossero cananee, che in seguito confluirono nel popolo d’Israele.
Lo sguardo di Osea sui commerci è dunque molto duro, dice parole in linea con quelle di Amos e quelle più tarde di Isaia e Geremia. Qui la critica alla ricchezza non è però legata alla polemica idolatrica (vitello d’oro). No, è una critica "civile", etica, rivolta alla natura intrinseca dell’attività economica e mercantile. E con la critica profetica torna forte e tenace la stessa domanda: perché? Perché i profeti, Gesù incluso, non amano i commerci e i commercianti? Certamente c’è il dato empirico dell’attività commerciale come luogo favorevole per imbrogli e inganni dovuti alle ’asimmetrie informative’ tra i commercianti e la gente comune. C’è inoltre anche l’idea radicata nelle culture pre-moderne che lo scambio commerciale fosse un "gioco a somma zero", dove i guadagni dei mercanti sono uguali e contrari alle perdite dei clienti, una convinzione non sempre errata quando il mondo è statico e la ricchezza somiglia a una torta di dimensioni date dove una fetta più grande per me ha bisogno di una fetta più piccola per te. C’è poi anche il dato etico che l’uomo ricco trova nella ricchezza una sicurezza finta che entra in concorrenza con quella vera in Dio, un’ulteriore conferma che i profeti non vedono nella ricchezza la benedizione di Dio. Ma c’è, ci deve essere, anche qualcos’altro di carattere teologico.
Nei commerci umani i profeti vedevano il riflesso della religione commerciale e sacrificale del culto degli idoli, da cui volevano salvare il loro popolo. La diffusione tra la gente della logica commerciale portava con sé la crescita della religione economica centrata sui sacrifici, e viceversa - è difficile dire se è nato prima l’homo oeconomicus degli affari o l’homo religiosus dei sacrifici, perché, di fatto, sono quasi la stessa cosa. E così Osea equipara l’imbroglio religioso degli israeliti nei confronti di YHWH (12,1) a quello dei commercianti verso i loro clienti tramite le bilance truccate. È la logica commerciale che diventa ostacolo alla comprensione dell’amore gratuito di Dio e, quindi, delle cose più importanti della vita. E quando il commercio cresce troppo in una società la religione diventa immediatamente anch’essa commerciale, e si dimentica, ovunque, la gratuità. Questa polemica etica e teologica nei confronti dei commerci e dei mercanti è continuata per tutto il Medioevo e si è prolungata anche nella modernità, soprattutto nel mondo cattolico dove, molto più che in quello protestante, l’economo è rimasto soprattutto il mestiere di Giuda. Con una conseguenza molto importante: i mercanti che non taroccano le bilance (che pur ci sono, e sono molti) continuano a essere circondati da una diffidenza etica e una disistima civile profonde e pesanti. Quindi un’altra domanda: quando i profeti di oggi che continuano giustamente a condannare i mercanti imbroglioni (e chi usa il commercio come strumento di guerra) inizieranno anche a lodare quei mercanti diversi che vivono il loro mestiere con lo stesso hesed-agape di Dio?
Osea nella conclusione del suo capitolo continua a stupirci con tesi teologiche e storiche ardite e bellissime: «Giacobbe fuggì nella regione di Aram, Israele prestò servizio per una donna e per una donna fece il guardiano di bestiame. Per mezzo di un profeta [Mosè] il Signore fece uscire Israele dall’Egitto, e per mezzo di un profeta lo custodì» (12,13-14). Giacobbe, lo sappiamo anche dalla Genesi, divenne guardiano del gregge di Labano per avere in cambio come "salario" una moglie, Rachele. Mosè praticò invece un’altra custodia, custodì il popolo dall’Egitto attraverso il deserto. Giacobbe fu sentinella per una custodia privata, per trovare moglie – da notare che la prima volta che troviamo nella Bibbia la parola "salario" è per Rachele, che fu il salario che Giacobbe ottenne per il suo lavoro di custode (Gn 29,15). Mosè fu custode del popolo, e quindi fu profeta. È infatti molto importante e bello che la parola che Osea usa per dire guardiano-custode è shomer, la grande parola biblica con la quale i profeti si auto-definiscono "sentinella" (si pensi allo stupendo canto di Isaia (21,11): «Sentinella, quanto resta della notte?»).
Torna anche in Osea la tensione tra una tradizione che vedeva l’origine di Israele nella discesa di Abramo e i patriarchi da Ur dei caldei, e l’altra che poneva l’inizio in Egitto, nel deserto e nella salita verso Canaan. Non dobbiamo poi dimenticare che ogni volta che nella Bibbia troviamo il riferimento al conflitto tra due fratelli, da qualche parte tra le righe c’è una citazione implicita: quella dei primi due fratelli. Osea continua a presentarci Giacobbe-Israele sulla linea di Caino non su quella di Abele. Caino non fu lo shomer di Abele (Gn 4,9) e quindi divenne fratricida, a ricordarci che custodia è l’altro nome della fraternità. Osea è il primo nella Bibbia a chiamare "profeta" Mosè. È importante che Osea consideri Mosè il capostipite dei profeti biblici. Per dirci che la profezia non finisce dove comincia la Legge, il governo e l’istituzione (le tipiche prerogative di Mosè nella Bibbia), perché anche la profezia ha una sua dimensione istituzionale, giuridica e di governo, sebbene molto diversa da quella dei re e dei sacerdoti.
Le comunità iniziano il loro declino, spesso irreversibile, quando iniziano a pensare, sulla spinta dei falsi profeti, che i profeti devono occuparsi soltanto di cose "spirituali" e non interferire con le loro idealità utopiche nelle scelte politiche e di governo. Ritagliano per loro piccole zone religiose innocue, dove vengono lodati e persino esaltati purché non escano dal recinto del santuario. I paletti invisibili, ma fortissimi della recinzione si chiamano idealismo, ingenuità, utopia, mancanza di senso pratico, che vengono evocati ogni volta per zittire i profeti che cercano di varcare la soglia del cerchio magico. La profezia viene a coincidere con l’utopia, dimenticando che la profezia, diversamente dall’utopia, è sempre concreta, insiste su una terra concreta realissima. La profezia è un già che qui ed ora indica un non-ancora che rende vero e concretissimo il suo già. Il governo che confina i profeti nel regno religioso dell’innocuo è miope, cinico, mai dalla parte dei poveri e dei deboli, incapace di visione e asservito agli interessi dei mercanti sbagliati. Queste comunità potrebbero essere salvate solo dai profeti, se qualcuno di loro riuscisse a spezzare le catene e uscire dalla caverna.
l.bruni@lumsa.it