Il segno e la carne /13. Il tempo infinito del pianto
È sempre sorprendente, e un poco sconcertante, leggere e rileggere nella Bibbia che il suo Dio entra costantemente in faccende economiche e politiche molto concrete e precise, chiamando gli eventi con il loro nome proprio. Alleanze, richieste di aiuto militare, invasioni, occupazioni, sono materiali teologici con i quali i profeti compongono le loro parole, le loro benedizioni e maledizioni, sono i fili con cui YHWH tesse la sua tenda in mezzo a noi. A dirci che per il Dio biblico non ci sono parole più spirituali di quelle dei Trattati internazionali, della guerra e della pace. E se i profeti, persino Dio stesso, si sporcano le mani con le faccende politiche e militari senza con questo diventare meno santi o diventandolo di più, allora ogni umanesimo che voglia ispirarsi alla Bibbia non può non toccare, qui e ora, le piaghe della storia, versare olio e vino nelle sue ferite, e non avere mai paura di parlare di economia e di finanza, di eserciti e di armi, di carnefici e di vittime, di smascherare chi in nome degli dèi della guerra vuole "ingannare" Dio.
I profeti si mettono sempre dalla parte delle vittime, non fanno calcoli costi-benefici perché sanno che una sola vita vale più del Pil mondiale, e poi ci ricordano che non stare da nessuna parte significa stare sempre dalla parte dei potenti e dei carnefici: «Èfraim mi inganna con menzogne e la casa d’Israele con frode. (...) Èfraim si pasce di vento e insegue il vento d’oriente, ogni giorno moltiplica menzogne e violenze; fanno alleanze con l’Assiria e portano olio in Egitto» (Osea 12,1-2). Il capitolo dodici di Osea è uno dei più difficili di tutti i libri profetici, ma, come spesso accade, è anche uno dei più belli e importanti. Vi è contenuto un altro racconto del "ciclo di Giacobbe", diverso da quello contenuto nel libro della Genesi. Il nucleo fondante di questo capitolo appartiene con ogni probabilità all’insegnamento orale del profeta, quindi risale all’VIII secolo a.C., almeno duecento anni prima del testo della Genesi. È quindi possibile che gli autori della Genesi si siano ispirati al racconto di Osea. Ma viste le notevoli diversità narrative e teologiche tra i due racconti, è altresì possibile e probabile che nei tempi antichi esistessero varie versioni orali delle tradizioni di Giacobbe e dei Patriarchi, che la Bibbia ha voluto conservare nelle loro divergenze, senza tentar una sintesi né decidere quale fosse quella "vera". Perché la Bibbia ci ripete ogni giorno che lo spirito soffia negli interstizi, negli spacchi, non ama le simmetrie e le rocce troppo regolari e levigate dalle teologie di corte.
Partiamo dal testo di Osea: «YHWH è in causa anche con Giuda; punirà Giacobbe per la sua condotta, lo ripagherà secondo le sue azioni. Già nel grembo materno ingannò suo fratello e diventato uomo lottò con la sua forza persino contro Dio. Ma Dio [un angelo] si dimostrò signore; Giacobbe la scampò piangendo e implorando pietà» (12,3-5). Il Giacobbe di Osea è un ingannatore di suo fratello gemello e primogenito Esau, già nel grembo materno, una tradizione coerente con Genesi (25,26). Probabilmente nel testo antico insieme al nome di Giacobbe c’era anche quello di Israele, poiché nei versetti 4-5 troviamo una etimologia sia del nome di Giacobbe (cioè Ya’aqob, da aqab: soppiantare, ingannare, "fare lo sgambetto") sia di quello di Israele (dal verbo sarah: lottare, combattere, ma con un accenno anche all’altra etimologia del nome Israele: «Dio è il Signore»: (v. 5). Nel famoso capitolo trentadue della Genesi, Israele è il nuovo nome che Giacobbe riceve, insieme alla sua benedizione, dal misterioso lottatore al termine del combattimento: «Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto [sarah] con Dio [Elohim<] e con gli uomini e hai vinto!» (Gn 32,29). Soffermiamoci ora sul solo episodio della lotta tra Giacobbe e Dio, che la Genesi (non Osea) ambienta nel guado notturno del fiume Yabbok. Ci sono analogie tra le due versioni di questa misteriosa e ricchissima lotta di Giacobbe con gli uomini («un uomo lottò con lui...»: Gn 32,25) e con Dio. Ma ci sono anche delle importanti differenze.
Nel racconto di Osea il vincitore della lotta sembra essere Dio, sebbene la traduzione Cei non lo evidenzi: «Osea spiega la lotta di Giacobbe con Dio così: Giacobbe, l’impostore, restò vivo soltanto perché implorò Dio di essere benevolo" (J. Jeremias, "Osea", p. 233). Nel libro della Genesi è invece Giacobbe a prevalere («e hai vinto»), che ci viene presentato come un uomo dotato di una forza straordinaria (Gn 20,10). In Osea, poi, non c’è alcun riferimento alla benedizione che l’uomo-Elohim donò a Giacobbe, né al nome nuovo, Israele, che giunge assieme alla benedizione (Gn 32,30), né alla ferita all’anca, l’eredità del combattimento (Gn 32,32). Per Osea, Giacobbe-Israele è l’imbroglione-lottatore che piange e implora; per la Genesi è l’imbroglione-lottatore-benedetto. Per la Genesi la benedizione giunge a Israele come prezzo della liberazione dell’uomo-Elohim che era stato sconfitto. In Osea, Giacobbe è sconfitto, piange e implora pietà. È lui il debole, Dio il forte. Giacobbe ingannatore, piangente, implorante. Dunque, due immagini diverse del mito fondativo di Israele, due diverse antropologie (chi è, come è l’uomo?), due diverse teologie (chi è, come è Dio?). Neanche la Genesi ha paura di mostrare il padre del popolo come un uomo fragile, limitato, bugiardo e imbroglione. Osea è però più radicale. Non cerca consolazioni, non smorza la forza dell’imbroglio con la benedizione, non teme di mostrare il padre fondatore come uno sconfitto totale.
Al di là degli aspetti esegetici e filologici, quasi sempre controversi quando si ha a che fare con testi così antichi e che hanno subìto varie modifiche da mani successive a quelle del primo autore, il messaggio importante che ricaviamo da questo altro racconto della storia di Giacobbe va cercato altrove. Le narrative dei profeti e quelle dei sacerdoti e dei dottori della Legge (cioè l’ambiente dove nacque il testo della Genesi) sono diverse e quasi mai riconducibili le une alle altre. Il profeta ha una radicalità teoantropologica che i sacerdoti non conoscono né tantomeno amano. Osea vuol mostrare che Giacobbe-Israele nacque imbroglione e così restò per tutta la vita, e, forse, tentò invano di fare lo sgambetto anche a Dio nell’agone della lotta. Non crea un mito fondativo edificante e consolatorio. No: il suo Israele non nasce da una grande vittoria: è figlio di una sconfitta. Giacobbe resta un grande perdente anche (e perché) cerca di deviare i piani di Dio con i suoi espedienti. L’immagine dominante che Osea ci lascia di Giacobbe è di un uomo che aveva osato affrontare Dio, una sorta di Prometeo, che però piange e chiede pietà. Un debole, un fragile, non un uomo forte, uno che chiede di essere salvato. Due storie diverse, e la Bibbia le ha voluto custodire entrambe.
E qui si apre un nuovo discorso sulla profezia, sui profeti, sul loro ruolo essenziale nelle comunità. I profeti, ieri e oggi, non sono essenziali solo per capire e discernere il presente, né solo per indicare scenari futuri. Sono necessari anche per leggere il passato, per la costruzione della memoria, per scrivere una storia diversa, spesso molto diversa, dalla storia e della narrativa ufficiali del tempio. I profeti non hanno bisogno di consolazioni, non hanno paura di guardare in faccia gli errori e i peccati del presente e del passato, perché hanno una certezza interiore incrollabile che la storia che stanno raccontando è viva e vera. Ci amano togliendo la patina consolatoria dalle nostre storie, dicendoci ogni giorno: "Il bello è davanti, non dietro di voi". E così sono spietati nella demolizione dei miti consolatori che invece abbondano soprattutto nei tempi di crisi, quando è troppo forte la tentazione di inventare un passato glorioso narcotizzante per dimenticare le miserie del presente. I profeti veri sono diversi, hanno altre storie da raccontare, che non ci piacciono ma sono la sola medicina buona.
Non finiremo mai di ringraziare la Bibbia e il popolo ebraico per averci donato le parole dei profeti, perché potessero arrivare fino a noi, dentro le nostre crisi, quando continuiamo testardi a non ascoltare le storie dure dei profeti e ad amare i loro racconti consolatori e le loro finte resurrezioni. I profeti sanno che un padre fondatore debole e sconfitto, che piange e implora, è più vero di un patriarca fortissimo capace di affrontare e vincere persino Elohim. Sanno amarci solo con la verità, e così il loro Giacobbe anti-eroe, piangente e implorante, può raggiungerci nel fondo delle nostre sconfitte, toccarci e sanarci, perché solo le ferite vere possono essere toccate e guarite.
Il capitolo trentadue del libro della Genesi è uno dei passi biblici che ho più amato. È stato il testo che ispirò, quindici anni fa, il mio primo libro sulla Bibbia:La ferita dell’altro, a sua volta, forse, il mio libro più amato. Un capitolo che è uno dei capolavori letterari di tutta la letteratura religiosa, un autentico squarcio di cielo. Ma, forse per i tempi tremendi che stiamo vivendo, il Giacobbe di Osea riesce a dirmi parole nuove. Quell’uomo sconfitto che piange e implora pietà oggi lo vediamo meglio, ora lo possiamo riconoscere di più. Ci sono dei tempi, individuali e collettivi, quando ci parla di più la "benedizione", altri in cui ci parla soprattutto la "ferita", e non vogliamo benedizioni che non nascano dal cuore di queste ferite. Perché quelle ferite fanno vedere meglio la terra, ci chiamano al fianco dello sconfitto, ci comandano di piangere con lui, di implorare con lui e per lui una diversa benedizione, più vera di quelle banali che abbiamo conosciuto finora. In questo i profeti sono i soli maestri buoni, perché il tempo del profeta è il tempo infinito dell’uomo e della donna che piange.
E poi fare la scoperta, ma solo se arriviamo alla fine, che anche Osea ha una sua benedizione per Giacobbe e per noi. Non si trova nel guado dello Yabbok. Lo attende a Betel, un luogo santo nel ciclo di Giacobbe. Non gli cambia il passato, gli regala soltanto un altro futuro: «Lo ritrovò a Betel, e lì gli parlò... "Tu ritorna al tuo Dio, osserva la misericordia e la giustizia e poni sempre nel tuo Dio la tua speranza"» (12,5-7). Giacobbe, l’imbroglione piangente, resta in vita, parla ancora faccia-a-faccia con Dio che gli rinnova l’antica promessa. La speranza vera dei profeti si serve dei peccati e delle lacrime del passato per nutrire il cammino verso la terra promessa. Perché sanno che, da qualche parte, ci deve essere.
l.bruni@lumsa.it