Il Mistero rivelato /4. Carestia di sogni e sognatori
Tre cose non devi fare: placare il tuo compagno nell’ora della sua ira; cercare di confortarlo mentre il suo morto è steso davanti a lui; volerlo vedere nell’atto della sua debolezza
Shimon Ben Elazar, Avot (Detti dei Padri, IV,18)
«Nel secondo anno del suo regno, Nabucodònosor fece un sogno e il suo animo ne fu tanto agitato da non poter più dormire. Allora il re ordinò che fossero chiamati i maghi, gli indovini, gli incantatori e i Caldei a spiegargli i sogni. Questi vennero e si presentarono al re. Egli disse loro: "Ho fatto un sogno e il mio animo si è tormentato per trovarne la spiegazione"» (Daniele 2,1-3). Un grande re, un re straniero, idolatra, fa un sogno che lo turba molto e cerca esegeti del suo sogno.
I racconti del libro di Daniele si sovrappongono in molti punti con quelli altrettanto splendidi del ciclo di Giuseppe in Egitto. Daniele è un fratello narrativo e teologico di Giuseppe. È probabile che chi ha scritto Daniele abbia usato come spartito il racconto della Genesi, anche se non sappiamo quando la leggenda di Daniele iniziò a circolare quantomeno in forma orale. Sono entrambi maestri di sogni, e lo sono in un modo diverso dai tecnici dei loro re stranieri. In questa diversità si nasconde una dimensione essenziale della profezia.
La Bibbia ha subìto il fascino della cultura e della scienza caldea dei sogni. È probabile che lo stesso racconto di questo sogno sia una rielaborazione di un racconto babilonese relativo all’ultimo re caldeo Nabonedo – alcuni frammenti babilonesi di un suo sogno sono stati ritrovati nelle grotte di Qumran. La Bibbia non ha ripudiato in toto la cultura scientifica babilonese. L’operazione decisiva che gli autori biblici fecero con l’eredità della scienza onirica babilonese fu distinguerla dalla profezia. E mentre cercavano di dire cosa c’era di sbagliato in quelle antiche arti, capirono meglio cosa fosse la loro profezia.
«I Caldei risposero al re: "Racconta il sogno ai tuoi servi e noi te ne daremo la spiegazione". Rispose il re ai Caldei: "La mia decisione è ferma: se voi non mi fate conoscere il sogno e la sua spiegazione, sarete fatti a pezzi e le vostre case saranno ridotte a letamai"». (2,4-5). Il testo, al versetto 4, ci dice che i Caldei si rivolsero al re «in aramaico»: da qui fino al capitolo 7 il libro di Daniele è scritto in aramaico, non più in ebraico.
Un primo colpo di scena, che spezza il parallelismo con Giuseppe e il sogno del faraone (Gn 41): qui Nabucodonosor non chiede solo l’interpretazione del suo sogno; vuole che i suoi saggi gli rivelino anche il sogno. La richiesta del re è quantomeno bizzarra, e tale appare anche ai caldei: «Essi replicarono: "Esponga il re il sogno ai suoi servi e noi ne daremo la spiegazione"» (2,7). Il re non aveva dimenticato il suo sogno, lo vedremo. Usa allora questa non-informazione per operare una selezione per capire la qualità dei suoi esperti, dei quali sembra fidarsi molto poco (2,8-9). Se, infatti, il re avesse detto il suo sogno, la cultura babilonese possedeva sofisticati manuali di màntica, prontuari dove ogni sogno veniva scomposto nei suoi elementi essenziali codificati nei secoli. Una tecnica avanzata che avrebbe prodotto una spiegazione senza il bisogno di nessun intervento divino.
Il libro di Daniele crea con questa strana richiesta un espediente narrativo per dire l’insufficienza della tecnica per un tipo speciale di sogni. Sembra anche che il re si renda conto che il suo non è un sogno ordinario, dove hanno buon gioco i tecnici; quel sogno aveva bisogno di capacità che il re dubitava fossero presenti tra i suoi consulenti onirici. E così lo scrittore crea lo spazio drammatico per l’irruzione in scena di qualcosa di diverso: la profezia.
«I Caldei risposero davanti al re: "Non c’è nessuno al mondo che possa soddisfare la richiesta del re...". Allora il re andò su tutte le furie e, acceso di furore, ordinò che tutti i saggi di Babilonia fossero messi a morte» (2,10-12). I re (una volta) erano così. Erodoto (Storie, III, 74-79) riferisce di una uccisione di maghi di corte per mano di Dario, testimonianza che il rapporto tra i re antichi e i loro maghi era sempre delicato, perché, grazie al potere incantatorio di questi ultimi, non era raro che i sovrani subissero forte un fascino che li esponeva alla manipolazione – fenomeni sempre attuali.
E qui irrompe Daniele: «Il decreto fu pubblicato e già i saggi venivano uccisi; anche Daniele e i suoi compagni erano ricercati per essere messi a morte. Ma Daniele rivolse parole piene di saggezza e di prudenza ad Ariòc, capo delle guardie del re, che stava per uccidere i saggi di Babilonia» (2,13-14). Daniele torna sulla scena mostrando le virtù che finora lo stanno qualificando, la prudenza e la sapienza relazionale, che gli consentono di ottenere la benevolenza dei suoi interlocutori e dominatori. Virtù essenziali in ogni esilio e in ogni guerra, dalle quali si può salvare un "resto" se la sapienza gentile e nonviolenta di Daniele prevale su quella bellica di Sansone (Gdc 16,30).
Dalla risposta di Ariòc, Daniele capisce la gravità della situazione e, come aveva fatto per il cibo contaminato, agisce subito per trovare una soluzione – rivelare al re il sogno e l’interpretazione. I personaggi della Bibbia (incluso Gesù) agiscono perché mossi dalle circostanze drammatiche nelle quali si trovano, non per mostrare effetti speciali. La prima cosa che Daniele fa è tornare dai suoi compagni: «Daniele andò a casa e narrò la cosa ai suoi compagni, Anania, Misaele e Azaria, affinché implorassero misericordia dal Dio del cielo riguardo a questo mistero» (2,17-18). Non sappiamo perché l’autore abbia voluto collocare il dono della visione di Daniele dentro una comunità di giovani amici. Non lo sappiamo, ma è bello che la prima teofania di questo libro avvenga in una compagnia, una comunità orante. La Bibbia è un continuo dialogo tra voci singolari e voci plurali, tra un Dio che ama i luoghi affollati e lo stesso Dio che ama il piccolo-infinito spazio di un cuore in ascolto. Il noi e l’io sono i due tempi del ritmo dell’umanesimo biblico, anche se, quando entriamo nel campo della profezia, il "noi" sta in mezzo a due "io" che lo precedono e lo seguono. L’ispirazione accade nella persona (io), si svela e comprende nella comunità (noi), diventa parola nella persona che l’annuncia (io): «Allora il mistero fu rivelato a Daniele in una visione notturna» (19).
Il libro di Daniele è un testo tardo dell’Antico Testamento, quindi eredita tutta la grande tradizione profetica. Nel "mistero rivelato" a Daniele troviamo però qualcosa di essenziale. I profeti sono uomini della parola, i soli che possono dire "oracolo del Signore" e poi aprire le virgolette. Sono mendicanti di parole non loro, che imparano a distinguere dalle proprie, sono maestri dell’udito. Parola è l’altro nome del profeta. Con Daniele però capiamo che nella profezia la parola (dabàr) è preceduta dalla visione (hazòn) che rivela un mistero (raz) che poi la parola dice. In alcuni profeti questo passaggio resta implicito, in altri lo possiamo individuare: in Daniele è esplicito e centrale. Nella profezia (biblica, religiosa e laica) la parola detta viene dopo un evento spirituale dove il profeta: prima vede, poi quella visione gli/le apre un mistero (il messaggio che deve annunciare), infine parla e dona quel mistero rivelato al popolo.
Non deve allora stupirci il fatto che i profeti vedono la parola: «Parola che vide Isaia» (2,1), o «parola che Amos vide» (1,1). L’evento spirituale accade, e nel suo momento sorgivo è pre-verbale. Il profeta lo vede prima che diventi parola detta. Chi lo osserva chiama "parola" anche questa prima visione («Isaia vide la parola»), ma se il profeta avesse dovuto parlare in quella visione primordiale sarebbe rimasto muto, o avrebbe pianto. Il corpo del profeta è il luogo dove quella visione diventa parola; e poiché il corpo dice tempo, spazio e storia, tra la visione e la parola ci sono spazio, tempo e storia. E quando quella visione esce dalla bocca e dal corpo del profeta non è più la luce bianca che il profeta ha visto: è già luce colorata dall’umanità del profeta, dal suo spazio, dal suo tempo, dagli spazi e dai luoghi della storia. Quando nasce, la profezia è pura visione che avvolge un mistero, è mythos. Dopo viene generato il logos, e solo quando il mistero si è rivelato-incarnato nel corpo, nel tempo e nello spazio può diventare discorso.
Da qui derivano alcune conseguenze serie. Da una parte la rivelazione biblica non coincide con la sua parola ed è più grande. Noi abbiamo la parola dell’evento, non abbiamo l’evento. Ed ecco perché nei tempi tremendi quando le parole, anche quelle bibliche, diventano tutte mute, per tornare a parlare abbiamo bisogno di tornare al mistero contenuto dalla visione, all’evento che aveva detto quelle parole che non l’hanno esaurito. Questo per la Bibbia e per la nostra vita, quando dopo una malattia, un lutto, un golgota che logora e invecchia in un attimo tutte le nostre parole e restiamo ammutoliti, per ricominciare un discorso dobbiamo tornare agli eventi che hanno fondato le nostre parole, e su quelle non-parole nude (una voce, un incontro, una luce) provare a risorgere. La Bibbia non ha fatto di se stessa un idolo perché ha custodito il mistero non-verbale che l’ha fondata e la rifonda ogni giorno. Quando ci dimentichiamo il mistero non-detto dietro la parola, la Scrittura perde spessore, imprigioniamo Dio dentro le sue parole e lo riduciamo a un dio banale. Ma non meno grave è dimenticarsi che anche dietro le parole nostre e degli altri c’è un mistero muto, e che le parole più brutte che ci siamo dette potranno essere salvate da quelle non dette perché indicibili.
Inoltre, se noi dai profeti riceviamo solo "luce colorata", al lettore della Bibbia e a ogni ricettore di profezia (compresa quella forma speciale di profezia che è l’arte) la luce bianca è preclusa. Questa è il mistero-non-rivelato del profeta, è il segreto del profeta irrivelato perché irrivelabile. Anche se in chi ascolta i profeti è molto facile confondere la luce colorata con la luce bianca, quindi dimenticarsi della storia e dei limiti dello spazio e del tempo: è così che i profeti diventano idoli.
A Daniele il mistero del sogno di un altro uomo (il re) si svelò durante un suo sogno. Sognando comprese il mistero del sogno di un altro. I grandi sogni degli altri li possiamo capire solo se anche noi proviamo a sognare. Nei tempi di carestia di sogni, troppi misteri restano non-svelati per carestia di sognatori.
l.bruni@lumsa.it