Opinioni

Il mistero rivelato /18. I sigilli della terra di domani

Luigino Bruni sabato 30 luglio 2022

Vicino Digione, quando si stavano per tagliare le ultime spighe di grano, si portava in giro un bove ornato di nastri, di fiori e di spighe, seguito da tutti i mietitori danzanti. Poi un uomo vestito da diavolo tagliava le ultime spighe e uccide il bove. Parte della carne veniva mangiata durante la mietitura, parte veniva conservata fino al giorno della semina in primavera.
Arnold Van Gennep, Manuel de folklore français contemporain

Le donne e gli uomini sono capaci di risorgere. Dopo malattie tremende, depressioni, lutti, fallimenti, abbandoni, sanno rialzarsi e uscire dalle loro tombe anche quando nessuno urla "vieni fuori". Se è vero che le resurrezioni umane esistono perché esiste Dio, è anche vero che Dio esiste perché esistono le nostre resurrezioni – due verità amiche e sorelle. La resurrezione è inscritta nell’anima delle persone e dei popoli, fa parte del repertorio etico dell’homo sapiens. Non è una novità cristiana, anche se, per la Chiesa, la resurrezione del Cristo è un evento diverso e inedito. Molti popoli avevano intuito, desiderato, pregato, sperato in qualcosa di vivo e vero che continuasse quando gli uomini e le donne chiudevano gli occhi per l’ultima volta. Abbiamo ritrovato tracce di cibo e di utensili in tombe di almeno 90.000 anni fa, che dicono l’antica credenza, o quantomeno la speranza, che la fine non fosse davvero la fine. Gli egizi erano certi che la vita continuasse dopo la morte e che per i morti ci fosse un giudizio di fronte al dio Osiride. Il ciclo di vita e di morte inscritto nella natura e nei raccolti è sempre stato il grande libro dove l’umanità ha imparato la speranza che dopo l’ultimo autunno ci fosse, anche per gli esseri umani, una diversa primavera. Le tradizioni indo-europee sull’ultimo covone sepolto, benedetto e pregato di risorgere, erano caparra che neanche il frumento umano si estinguesse per sempre dopo il passaggio della falce.

La Bibbia ha anche su questo una prospettiva diversa. Il Dio biblico è il Dio dei vivi, ama la vita e non vuole la morte dei suoi fedeli. Per noi, figli dell’umanesimo cristiano, è difficile comprendere che si possa credere in Dio e non legare la sua esistenza alla vita oltre la morte quando finalmente lo vedremo. Per l’Antico Testamento quando si muore non si va da YHWH ma nello Sheol, il regno dei morti, non troppo diverso da quello dei greci e dei romani, e molto distante dal paradiso cristiano. Quando il re Ezechia guarì dalla sua malattia mortale, così ringraziò il suo Dio: «Dicevo: "Non vedrò più il Signore sulla terra dei viventi"» (Is 38,11). È la terra dei vivi il luogo dove si incontra Dio: «Non i morti lodano il Signore, né quanti scendono nella tomba. Ma noi, i viventi, benediciamo il Signore ora e sempre» (Sal 115,17-18). Da qui l’immenso amore e stima della Bibbia per la vita. Il suo paradiso sono i figli, il suo paradiso è lasciare la terra con una buona fama, il suo paradiso è lo Shabbat. Nella Bibbia sono quindi molto scarsi e rarefatti i riferimenti all’idea che i morti risorgano, che possano tornare, in qualche modo, a vivere. Elia ed Eliseo risuscitano dei bambini, e risuscitandoli li riscattano dal regno dei morti. Senza questo infinito amore per la vita non avremmo avuto il grande valore etico di tutto ciò che gli uomini e le donne fanno mentre sono vivi, non avremmo avuto l’ora et labora, non avremmo avuto l’economia di mercato né la stima per le opere d’arte, non avremmo immaginato la benedizione dell’angelo della morte – solo una cultura della vita sa abbracciare la morte.

Ma in alcuni versi più grandi del loro scrittore la profezia ha intuito che l’esistenza e la promessa di vita di YHWH potessero bucare il velo del tempo storico, che l’economia della giustizia divina avesse bisogno di un arco più grande di quello contenuto sotto il nostro cielo, perché nella sua parte a noi invisibile ma reale dovevano essere scritti i finali delle nostre storie più importanti, quelli dei poveri, quelli delle vittime. Perché se l’ultimo capitolo delle vite dei viventi fosse davvero l’ultimo, la giustizia dell’universo sarebbe troppo piccola: la terra ha sempre urlato una giustizia più grande di quella che riusciva a vedere. È tutta la storia che per millenni ha gridato con fra Cristoforo: «Verrà un giorno...!» – e continua a gridarlo: «In quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro. Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Daniele 12,1-3).

In questo brano che insieme a un altro di Isaia (26,19) è considerato dai cristiani una profezia della resurrezione presente nell’Antico Testamento (non sappiamo quale dei due sia il più antico) non c’è soltanto un altro episodio biblico di teologia retributiva. Quell’antica e semplice idea religiosa è solo l’involucro di qualcosa di molto più profondo e vero. È la speranza che tutto il dolore del mondo sia raccolto «nell’otre» di Dio (Salmo 56), che non ne vada dispersa neanche una lacrima. La giustizia umana si è retta per millenni su quest’idea. Il giudizio di Dio dopo la morte o alla fine dei tempi era lo sguardo di ultima istanza sulle azioni umane, uno sguardo che non ha eliminato l’ingiustizia dalla terra ma forse ha impedito che superasse la massa critica dell’esplosione del mondo. La domanda allora diventa: riusciremo a non far esplodere l’ingiustizia sulla terra ora che abbiamo eliminato dai nostri atti quello sguardo più alto e lungo? Quanto sta accadendo con il pianeta sembra dirci di no: una terra svuotata dagli dèi sta diventando bottino dei più forti e scorreria di sciacalli.

Al termine di questa visione Daniele riceve un ordine: «Ora tu chiudi queste parole e sigilla questo libro, fino al tempo della fine» (12,4). Sono questi i luoghi dove la Bibbia supera se stessa, si sublima e le sue parole divengono più grandi delle intenzioni dell’autore – forse è anche questo uno dei significati di "libro ispirato". Quell’autore perseguitato pensava e sperava che la profezia del Daniele personaggio letterario del passato si stessero per avverare (era la sua stessa profezia-speranza), e che il «tempo della fine» fosse la fine della loro persecuzione e l’avvento di un nuovo regno di giustizia. Per lui i sigilli si stavano per togliere, pochi anni e il mistero sarebbe stato rivelato. E invece, a sua insaputa, quelle sue parole hanno nutrito generazioni di cercatori di giustizia, di oppressi e di martiri, che aspettavano la sua stessa liberazione – la Bibbia è anche tempo storico che si eternizza.
Caro autore antico, caro compagno di fede e di speranza, grazie per aver sigillato il tuo libro e non averlo aperto: non lo potevi sapere ma tu non hai tolto quei sigilli perché i nostri figli, i nipoti e l’ultimo umano potessero vivere e morire sperando di essere loro a toglierli. Non li hai tolti perché l’uomo o la donna del futuro, rileggendo questo capitolo 12 del libro, potrà leggere il suo nome nel libro della vita, e continuerà la sua battaglia di giustizia. Sei tu, figlia, figlio, l’angelo che deve togliere i sigilli, l’essere umano che deve almeno provarci e alla fine morire contento di averci provato, e poi benedire i figli che continueranno la tua stessa corsa.

Terminata questa sua visione, Daniele vede due esseri celesti sulle due sponde del fiume. Uno di loro chiede a quello con le «vesti di lino» che stava sopra le acque: «Quando si compiranno queste cose meravigliose?». Daniele ode la risposta: «Tutte queste cose si sarebbero realizzate fra un tempo, tempi e metà di un tempo» (12,6-7). Il velo che avvolge il mistero del senso di quel «tempo, tempi e metà di un tempo» è ciò che consente alla Bibbia di non diventare una favola o il libro di Nostradamus, anche se sono innumerevoli i tentativi fantasiosi di applicare al nostro futuro quelle profezie. Tra questi tentativi anche quello dell’autore dell’ultimo passaggio redazionale del libro di Daniele che ha aggiornato di qualche mese quella profezia, visto che i pochi anni erano già passati e la giustizia non era arrivata: i 1.290 giorni (così si può leggere quel «tempo, tempi e metà di un tempo» del versetto 7) nel versetto 12 diventano «1.335 giorni».

La frase più importante di questo ultimo capitolo del libro nella tradizione ebraica (e protestante) – noi commenteremo nelle prossime due calde settimane anche i capitoli 13 e 14 della tradizione cattolica, con le stupende storie di Susanna e di "Bel e il Drago" – è forse quella che incontriamo nel versetto 12: «Beato chi aspetterà con pazienza». È questa beatitudine dell’attesa, che ricorda la conclusione del Conte di Montecristo, la benedizione più bella del lettore della Bibbia credente alla sua promessa. Il suo tempo è quello dell’attesa, ma un’attesa piena, densa, vera, quella di chi sa aspettare sapendo che qualcosa, qualcuno, prima o poi arriverà davvero. È l’attesa del padre del figliol prodigo, l’attesa dell’amico che tarda, ma che tornerà, della pace che deve arrivare, delle fede che abbiamo perduto, ma non per sempre, dei volti di chi abbiamo amato e che sappiamo che dobbiamo rivedere. La fede biblica è questa speranza, questa speranza è tutta fede, l’amore-agape non è vano se fiorisce da questa fede e da questa speranza diverse.

Al termine delle sue visioni – tutte stupende: ci hanno fatto sognare di nuovo Dio e gli angeli – Daniele riceve un’ultima esortazione: «Tu, va’ pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni» (12,13). Noi possiamo immaginare Daniele andare in pace verso la fine dei suoi giorni, con la fede-speranza-agape che la fine non sarà la fine: anche lui sarà tra i giusti che si alzeranno dalla polvere. Daniele è il primo dei risorti. C’era allora tutto l’Antico Testamento nell’orto di Giuseppe d’Arimatea: c’erano i profeti, i martiri, i Salmi, la figlia di Jefte e tutte le vittime della storia, il Battista, forse anche Giuda. Tutti a pregare, sperare e attendere con Daniele.
Come Mosè, come Noè, come Elia, anche Daniele dopo aver svolto il suo compito esce di scena, ma non esce dalla Bibbia. È questa la castità più bella della Bibbia, è questa la sua anti-idolatria: i suoi uomini e donne più grandi e amati non sono diventati idoli perché, nel momento opportuno, si sono ritirati per lasciarci il loro posto. La Bibbia è ancora viva grazie allo spazio che ci hanno fatto i suoi protagonisti, allo spazio che ci ha fatto Dio. E ci ripete: fa anche tu lo stesso.

l.bruni@lumsa.it