Il mistero rivelato /17. Ma anche Dio si sorprende
«Ma gli umili erediteranno la terra e godranno il piacere di molta pace».
La sua interpretazione: l’assemblea dei poveri che accettano il tempo determinato dell’afflizione sarà liberata da tutte le insidie
Scritti di Qumran, Commento al Salmo 37
Se lo spartito della storia fosse già scritto in cielo e noi fossimo solo suoi esecutori, o se questo spartito non fosse quantomeno uno spartito jazz dove gli interpreti hanno un ruolo libero e creativo, il mondo sarebbe uno show dove saremmo tutti come il giovane Truman, tranne Dio che ha creato il nostro set e trascorre il suo tempo a vedere un’opera teatrale identica a quella che ha scritto. Finti sarebbero anche il sì di Abramo e di Geremia, la scena del Monte Moria, la giustizia di Noè e la lealtà di Giuseppe l’egiziano. Finto il peccato di Davide con Uria, finta la veglia di Rispa sul corpo dei suoi figli e finto il suo dolore. Fiction sarebbero i pentimenti di Dio. E solo teatro l’abbandono del crocifisso del Golgota e di tutti i crocifissi suoi fratelli e sorelle. Dio non si sorprenderebbe mai, non gli direbbero nulla la lealtà di Daniele e dei suoi amici, le nostre lealtà silenziose, le nostre infedeltà, neanche quella di Giuda; e i milioni di anni di vita sulla terra e i millenni di storia umana non aggiungerebbero neanche una virgola al libro della verità custodito nel seno di Dio. Tutto sarebbe tremendamente noioso, noi non saremmo liberi, le nostre azioni non avrebbero alcun valore etico, e il primo annoiato sarebbe Dio.
«Io ti dichiarerò ciò che è scritto nel libro della verità» (Daniele 10,21). Il "libro della verità" è una espressione comune nella letteratura apocalittica giudaica e, in varie versioni, anche in altra letteratura mitica mediorientale. Nel libro di Daniele il passato e il futuro si intrecciano, perché gli eventi che nel testo appaiono come profezia e futuro (e quindi sono scritti con verbi al futuro), per l’autore che scrive il libro sono già cronaca - non dimentichiamo che le storie di Daniele sono ambientate nel VI secolo a.C. mentre il suo autore scrive nel II secolo. La sua finzione narrativa si basa però su una visione teologica: la storia umana è già scritta nel "libro della verità" che si trova presso Dio; noi scopriamo questa storia mentre la viviamo, i profeti ne prevedono alcuni brani, ma è un processo di scoperta di ciò che era stato già deciso e non può essere che così.
Questa bizzarra teologia della predestinazione ha comunque influenzato la storia europea. Innanzitutto, perché l’idea arcaica di destino non è mai uscita dalla pietà popolare. È una chiave di lettura semplice che tutti capiscono, e che serve a consolare o alleviare molti dolori inconsolabili ("era destino"... "era destinato"). Il bisogno di consolazione nelle sventure è un bisogno primario degli umani, forse un nostro diritto fondamentale, talmente fondamentale che produciamo molte finte consolazioni pur di non morire. Il grande sociologo Max Weber ci ha poi insegnato che senza la versione calvinista della teologia della predestinazione non avremmo avuto questo capitalismo o lo avremmo avuto diverso. L’angoscia, a suo dire, di poter essere tra i predestinati per l’inferno e la certezza teologica che le opere buone nulla possono per cambiare ciò che è già scritto nel "libro della verità", fecero interpretare il successo negli affari come segnale che, forse, il proprio nome era tra quelli degli eletti: un concetto oggi tornato popolare grazie al cosiddetto "vangelo della prosperità". La Bibbia è molto più che religione: è storia, è cultura, è radice dove si trova il "cervello" del nostro albero. Ma per capirlo e trarne le conseguenze (studiandola a scuola come grande letteratura, per esempio) ci vorrebbe una laicità vera che non c’è.
Quindi non dobbiamo prendere troppo sul serio la dottrina del "libro della verità" contenuta nel libro di Daniele, perché se lo facessimo finiremmo per negare le parti più belle dello stesso libro. Occorre invece leggerlo come un dispositivo narrativo figlio della religione del tempo, certo, ma che comunque ci vuole dire qualcosa di importante: la storia umana non è lasciata al dominio del caso né del caos, c’è un filo rosso d’amore che guida gli eventi, pensato e voluto per la nostra salvezza, le vicende umane sono tenute nel palmo della mano della Provvidenza. Noi oggi sappiamo che il "libro della verità" Dio lo scrive insieme a noi, e lo scrive mentre si compie la nostra vita (né prima né dopo), perché Dio è il primo garante della verità della storia umana, è la prima sentinella della nostra libertà non-finta.
Il capitolo 11 del libro di Daniele sfoglia quel libro nei cieli, e inizia a leggerci gli eventi che dalla fine dell’impero babilonese giungono fino ai "romani" (11,30), ridicendo, in forma di cronaca, le storie che ci aveva raccontato nei primi capitoli con il linguaggio delle visioni e dei simboli (statua di metalli e bestie). Non è difficile capire l’effetto che questi brani hanno esercitato per molti secoli su ebrei e cristiani, che leggevano questa narrazione storica come profezia e previsione perfetta di eventi futuri: anche questa ignoranza e questa ingenuità hanno creato lo splendore dell’Europa, la nostra arte e la nostra letteratura, e hanno donato ai nostri avi sogni bellissimi, certamente più belli dei nostri sogni disincantati e senza colori.
È interessante notare come quella scuola di scribi che compose il libro di Daniele ci presenta Alessandro Magno (11,3-5). La storia ufficiale ce lo mostra come colui che diffuse la grande cultura greca in buona parte del mondo conosciuto (Aristotele era stato suo precettore), creando quella koinè che, tra l’altro, secoli dopo favorì anche lo sviluppo del cristianesimo. Per Daniele in quella dominazione non vi era invece nulla di buono. Nella Bibbia Alessandro è solo un dominatore assetato di potere. Chi domina e espande il proprio impero qualche volta può anche essere mosso (in parte) dalla convinzione di dover esportare valori e civiltà superiori, ma per i popoli occupati c’è solo oppressione, violenza e volontà di potenza. La Bibbia, allora, è anche un grande esercizio etico di storia scritta dagli sconfitti, è il mondo visto dalla prospettiva delle vittime - oggi dovrebbero essere gli adolescenti a giudicare i successi dell’impero capitalista, e forse dove noi vediamo progresso loro vedono soprattutto un pianeta devastato e l’orizzonte futuro accorciato. Nel corso dei secoli i libri biblici sono diventati i testi di minoranze profetiche minacciate, libri sacri con cui iniziare una liberazione.
Anche la scrittura del libro di Daniele, composto o terminato in qualche grotta dove gruppi di giudei fedeli si rifugiavano durante la persecuzione di Antioco IV Epifane, fu un esercizio di resistenza spirituale e civile nei confronti di un impero che li voleva eliminare o assimilare alla grande cultura greca. Nel corso della storia è stato preso in mano da altre comunità che cercavano di resistere e di non morire di fronte ai nuovi imperi - forse anche in questi giorni, in Ucraina, in Myanmar, in Nigeria o in Palestina, nuove comunità umane stanno trovando nelle pagine di Daniele parole per continuare a sperare e a credere in una salvezza.
Infatti, verso la fine del racconto degli eventi "passati" - le guerre e le alleanze tra ellenisti (Seleucidi) ed egiziani (Tolomei) - l’autore del libro descrive il suo presente storico, e qui incontriamo un riferimento alla stessa comunità che stava scrivendo quelle pagine, e quindi al conflitto, interno agli ebrei, tra coloro che collaboravano con i greci e quelli che provavano, tra le persecuzioni, di restare fedeli: «Con lusinghe egli [Antioco IV] sedurrà coloro che avranno tradito l’alleanza… I più saggi tra il popolo ammaestreranno molti, ma cadranno di spada, saranno dati alle fiamme, condotti in schiavitù e depredati per molti giorni... Alcuni sapienti cadranno perché fra loro vi siano di quelli purificati, lavati, resi candidi fino al tempo della fine» (11,32-35).
Chi scrive libri sa che le pagine più difficili sono quelle dove l’autore fa irruzione nella scena, diventando personaggio tra i suoi personaggi. Raramente sono pagine felici, per mancanza di leggerezza. I libri grandissimi sono quelli dove l’autore entra nelle pagine che scrive e noi lettori gli chiediamo di non andare più via: come in alcuni capolavori del rinascimento italiano, dove la presenza in un dettaglio del volto del pittore aumenta solo lo splendore. Infine, dentro la lunga narrazione di secoli di lotte e di intrighi politici di uomini, troviamo due donne, due regine che in Daniele restano anonime. La prima è Berenice (282-246 a.C.), egiziana. Fu data in sposa da suo padre Tolomeo II ad Antioco II (greco). Antioco ripudiò sua moglie Laodice, ma alla morte di Tolomeo, Antioco la riprese con sé e ripudiò Berenice, e poi Laodice fece uccidere sia Antioco che Berenice insieme al suo bambino: «Non resisterà né lei né la sua discendenza e sarà condannata a morte» (11,6). La seconda è Cleopatra (215-176 a.C.), da non confondere con la più famosa Cleopatra amante di Marco Antonio. Era la figlia di Antioco III, che la diede in sposa all’egiziano Tolomeo V sperando «di rovinarlo» attraverso sua figlia. Ma, continua Daniele, «la cosa non riuscirà e non raggiungerà il suo scopo» (11,17).
Altre due donne nascoste nella Bibbia, due donne anonime alle quali ho voluto dare un nome. La prima, come molte altre donne, è usata come merce di scambio politico, vittima di intrighi di corte. L’ennesima donna-vittima, il ruolo femminile dominante nella Bibbia. Non usciamo innocenti dalla lettura biblica se non ci soffermiamo su queste vittime come davanti a una lapide. La seconda ci rivela invece un altro elemento che ritroviamo spesso quando nella Bibbia entrano le donne. La cosa non riuscirà: Cleopatra divenne infatti leale con la sua nuova famiglia egiziana, e fece saltare i piani politici. Quella donna non eseguì lo spartito che il padre aveva scritto per lei, eccedette il piccolo recinto di libertà che i maschi della sua società avevano segnato per lei, la sua casa etica fu più grande del suo oikos naturale. Come Abigail, come la madre del bambino risuscitato dal profeta Eliseo, come Mical la moglie di Davide. Come Maria, come la donna di Tekòa, come le levatrici d’Egitto: «Le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini» (Es 1,17).
Non è stato mai facile usare uomini come meri esecutori di piani di morte scritti dai potenti perché, semplicemente, siamo materia etica, e quindi la libertà sarà sempre una tentazione che può diventare invincibile. Ma ancora più difficile è usare le donne, perché la loro alleanza naturale con la vita le protegge dalle manovre di morte. Tante "cose" continuano ancora a "non riuscire" perché una donna decide di non eseguire lo spartito già scritto per lei. E così sorprendono anche Dio.
l.bruni@lumsa.it