Il mistero rivelato / 13. Figlio dell'uomo, figlio nostro
La grande novità della Bibbia nelle umili cose dell’economia sta nel superamento dell’economia, sta nel messaggio che delinea un compito umano che addita una condotta di vita più elevata
Riccardo Bachi
L’economia politica della Bibbia, 1936
Dopo aver visto le quattro bestie, e poi l’Eterno, l’Antico-di-giorni, Daniele finalmente vide un uomo, uno "simile ad un figlio d’uomo". A dirci che dopo i tempi dei regni dei mostri la sua terra, la terra di tutti conoscerà finalmente un regno umano. Non capiamo l’arrivo di questo figlio d’uomo se non lo confrontiamo con le bestie della prima parte della visione di Daniele. La sua profezia storica è la speranza vera che un giorno, un indefinito ma reale e storico giorno, i regni bestiali dei mostri dai dieci corni e con i grossi denti di ferro termineranno e inizierà il regno dell’umanità, di persone non più bestie, di sovrani umani che faranno il bene delle donne e degli uomini. Finalmente: finalmente per Daniele, finalmente per noi, che da millenni guardiamo la Terra, le sue guerre e i suoi mostri a quattro teste, e ripetendo la stessa domanda di Daniele preghiamo la sua stessa preghiera: «Antico-di-giorni, Dio Eterno: basta ingiustizia, basta guerre, basta mostruosità: aiutaci a vivere da umani». Dovremmo anche sapere che la Terra non sarà mai come vorremmo che fosse, perché siamo noi, sono io, a non essere come vorremmo e dovremo essere. Ma nel recitare quella preghiera-profezia dobbiamo diventare ignoranti, e pregare come fossimo ancora con l’Adam nel primo giardino, e lì con lui, con Daniele, con i profeti e con i bambini chiedere, richiedere e chiedere ancora. E poi non darci pace finché quel piccolo pezzo di terra dove viviamo somigli un po’ di più alla Terra di domani del figlio dell’uomo. Il figlio dell’uomo è anche nostro figlio, sono tutti i figli e le figlie che ci chiedono di crescere in un mondo finalmente umano.
«Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse fino all’Antico-di-giorni e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Daniele 7,13-14). Questi versetti del capitolo 7 di Daniele sono forse i più noti del suo Libro. Le interpretazioni, ebraiche e cristiane, canoniche e apocrife, sono legioni, e il flusso di nuove ipotesi non si è mai interrotto. Chiunque abbia solo sfogliato i vangeli ha incontrato almeno una volta l’espressione "Figlio dell’uomo", che Gesù usava molto per parlare di sé. E se il messianismo di Gesù è quello del Figlio dell’uomo, allora è anche e soprattutto faccenda umana. Perché il suo Regno dei cieli non riguarda il paradiso né l’altra vita: riguarda questa terra. Il Regno inaugurato dal Figlio dell’uomo era faccenda di uomini e donne, non di angeli e demoni. Era storia, profezia storica, terra, polvere. Riguardava la giustizia, gli orfani e le vedove, Lazzaro e il ricco epulone, i buoni samaritani e i buoni albergatori, le vittime e i carnefici, le tasse e i talenti, il vino e le croci. Riguarda quindi l’economia, la politica, il diritto, le armi, la pace e la guerra: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17,21).
Anche il figlio dell’uomo di Daniele è cosa di terra. Forse è un’immagine del Messia, dell’Immanuel di Isaia, del ritorno di Elia, magari del "veltro" dantesco (If 1,101). Ma sempre di un figlio d’uomo si tratta, quindi della vita sotto il sole. L’espressione non era nuova. Il profeta Ezechiele l’amava molto ("ben adam"). Non sappiamo se il capitolo 7 di Daniele venne prima o dopo delle tradizioni apocalittiche che diedero vita ai "Libri di Enoch", dove nel tomo II, il Libro delle Parabole, il figlio dell’uomo è una figura centrale. Il figlio dell’uomo di Enoch non ci aiuta però a capire il Figlio dell’uomo di Daniele. Il capitolo di Daniele fu scritto in aramaico: "ben adam" è la traduzione ebraica dell’espressione aramaica originale "bar nashà", che mette in luce soprattutto la fragilità dell’uomo insieme alla sua grandezza (Salmo 8). In Daniele, infatti, il figlio dell’uomo è un essere terrestre che sale verso la corte divina – "ecco venire con le nubi..." –, mentre in Enoch è essere divino o angelico. In Daniele il bar nashà è mondo, in Enoch è cielo. Forse il significato più vero di figlio dell’uomo è essere umano, un appartenente alla razza umana: ecce homo.
I libri di Enoch non sono entrati nel canone perché, come dissero gli antichi scribi del III secolo a.C., quei libri non "sporcavano le mani", non sporcavano le mani perché troppo celesti. Il libro di Daniele è invece nel canone perché sporca le mani, e le sporca perché le sue visioni parlano della terra, di polvere (Adam è soprattutto il terrestre, il plasmato con la polvere del suolo). Quindi di storia, perché solo una fede che ci porta dentro la nostra storia ci "sporca le mani" – e questa sporcizia buona ci fa più umani. Non meno importante e bella è la continuazione del racconto. Daniele, terminate le visioni delle bestie e del figlio dell’uomo, si trova in una situazione simile a quella nella quale si era venuto a trovare il re Nabucodònosor al termine dei suoi sogni e incubi (cap. 2). Infatti: «Io, Daniele, mi sentii agitato nell’animo, tanto le visioni della mia mente mi avevano turbato; mi accostai a uno dei vicini e gli domandai il vero significato di tutte queste cose» (17,15-16). Daniele era stato l’interprete-profeta che con la sua spiegazione del sogno misterioso del re lo aveva rasserenato. Ma ora che riceve lui stesso un sogno-visione, Daniele ha a sua volta bisogno di un angelo-interprete per placare il suo proprio turbamento. L’interprete ha bisogno di un interprete, il profeta ha bisogno di un altro profeta. Un brano che ci suggerisce molte cose decisive nella vita dei profeti.
Certamente il genere letterario onirico aveva le sue regole e i suoi canoni, che noi oggi non capiamo più; qualcosa comunque lo possiamo dire. Quando un profeta – la profezia è una dimensione presente in molte persone, dentro e fuori le religioni, in particolare ogni vocazione è profezia – deve decifrare i propri sogni, quando cioè non deve soltanto interpretare i sogni degli altri perché un giorno ha iniziato a sognare in proprio e vuole comprendere i suoi stessi sogni, la prima esperienza che fa è quella dell’insufficienza: quei doni e carismi che per anni lo avevano assistito nell’interpretazione dei sogni-incubi altrui, applicati a se stesso non funzionano. Il profeta sente una nuova povertà e avverte il bisogno di un interprete per capire il senso delle sue visioni. La profezia qui svela una sua natura intimamente relazionale. Il profeta ha il dono di lettura delle visioni degli altri, il suo talento si rivela dentro un rapporto, è un dialogo che poi diventa svelamento di misteri. Questa dimensione relazionale è talmente essenziale nell’umanesimo e nell’antropologia biblici che quando un profeta si ritrova egli stesso a sognare, per capire il senso e il messaggio di quei suoi sogni ha bisogno di un "angelo" che glieli spieghi. Come tutti i doni e i talenti anche quelli profetici si attivano solo all’interno di un rapporto, si aprono mentre a nostra volta li doniamo. "La fonte non è per me" (Bernardette), è regola aurea anche della profezia. E ci svela qualcosa di essenziale.
C’è una grande tentazione che prima o poi arriva nella vita di chi, per vocazione, ha ricevuto doni che ha usato con gratuità a vantaggio della comunità e di tutti. Questa tentazione in genere si insinua dopo i grandi successi che quei talenti-doni hanno generato. Un giorno si comincia così a pensare di usare il dono ricevuto non più a vantaggio degli altri ma a vantaggio di se stessi. Di fronte ai grandi risultati dei propri talenti applicati a servizio gratuito degli altri, si intrufola un pensiero che diventa dominante: "Perché non posso usare queste abilità-talenti anche per me? Perché non metterli a reddito, magari per un buon fine? Anch’io ho diritto a capire i miei sogni..." Se si cede a questa tentazione, termina la castità nei confronti dei propri doni, la castità da se stessi, quella davvero cruciale da custodire nel corso della vita, fino alla fine.
Daniele, di fronte a queste tentazioni naturali e forse necessarie, ci dice qualcosa di decisivo: "Anche tu hai diritto a decifrare i tuoi sogni, ma devi trovarti un angelo, non puoi usare il tuo carisma per te stesso". Perché i doni-carismi più grandi e preziosi ci vengono dati per il bene di tutti, sono beni comuni, e quando cerchiamo di privatizzarli si auto-distruggono. E poi quando volessimo in un altro giorno usarli di nuovo per interpretare i sogni degli altri, se il dono è stato privatizzato non funziona più – è così che molti profeti nati onesti si trasformano in falsi profeti per mancanza di castità da se stessi. Quando un interprete dei sogni degli altri un giorno sogna un proprio sogno grande e diverso, il primo segno che non sta diventando un falso profeta è la presenza di questa indigenza, è la consapevolezza di aver bisogno di un angelo-interprete. Questa povertà è la sua grande ricchezza. Un altro messaggio riguarda le comunità carismatiche: una comunità che ha ricevuto un carisma, quando deve interpretare i suoi propri sogni deve ricorrere ad un carisma diverso, non può utilizzare il proprio carisma per se stessa – è anche questo il valore della comunione tra i carismi.
Infine, c’è un dato curioso del testo: sembra che il turbamento e il dialogo di Daniele con l’interprete avvengano ancora durante il sogno, perché l’angelo-interprete che Daniele trova è uno "dei vicini" al trono. L’esegeta del sogno è dentro lo stesso sogno. Per molte visioni e sogni è possibile, e forse è bene, che l’esegeta sia fuori dal nostro sogno. L’angelo-interprete non deve essere della nostra comunità, della nostra religione e fede. A volte questa alterità è una necessaria distanza terapeutica per una buona esegesi. Ma in certi sogni diversi, l’interprete deve stare dentro il nostro stesso sogno. Qui l’angelo deve essere qualcuno che ci conosce intimamente perché è dentro la stessa esperienza, sta sognando con noi. Ci "legge dentro" con un’altra intelligenza, perché anche lui/lei è un personaggio della comune visione, è "uno dei vicini". Qualche volta non capiamo i messaggi della vita perché l’interprete è troppo vicino; altre volte, e sono quelle davvero cruciali, la rivelazione della visione si trova dentro casa ma noi la cerchiamo troppo lontano. E non passa il turbamento del cuore.
l.bruni@lumsa.it