Opinioni

Eccedenze e disallineamento /3. La benedizione delle ghiande

Luigino Bruni sabato 15 settembre 2018

La docilità del legno era la sua. Non era più albero che camminava, come gli aveva rivelato il cieco di Betsaida, ora era piantato al suolo e tutti i suoi passi finivano lì a piedi giunti e braccia spalancate come rami Il Golgota è un’altura spellata, senza vegetazione. Sulla cima ora spuntava un uomo albero, innestato a sangue
Erri De Luca, Indagine su un falegname


Nel corso della loro esistenza, le persone sviluppano molte più dimensioni di quelle utili alla comunità nella quale vivono e crescono. Perché il "compito" che dobbiamo svolgere nel mondo è sempre eccedente rispetto alla missione istituzionale della nostra organizzazione o comunità, che resta più piccola per quanto larga e straordinaria sia. Nessuna istituzione è più grande di una singola persona, perché mentre l’intelligenza collettiva di un gruppo o di una comunità riesce a risolvere problemi cognitivi molto più complessi e ricchi di quelli che riesce a vedere e a pensare l’intelligenza individuale, l’anima di una persona è sempre più complessa e ricca dell’"anima" della comunità. Le esperienze spirituali collettive possono essere più spettacolari, sensazionali, emozionanti più di quelle individuali, ma solo il cuore della singola persona è abbastanza ampio per contenere gli abissi più profondi e le vette più alte del dolore e dell’amore. Mosè, da solo, parlò con il roveto ardente, Geremia è solo mentre ode la voce sotto il mandorlo, e fu la solitudine di una piccola casa, non l’assemblea del tempio, il luogo dell’Annunciazione. Sta anche qui la dignità infinita della persona, che sarà sempre il tempio più bello e divino, talmente santo da non poterlo costruire ma semplicemente generare.

Per questo suo mistero profondissimo e per questa sua dignità immensa, una persona che riceve una vocazione e si mette in cammino è chiamata a fare migliore il mondo, non soltanto quella porzione di terra circoscritta dai confini della sua comunità. I suoi rami eccedono il giardino di casa, spargono spore e semi che germogliano se restano liberi portati dal vento. Quando invece la comunità che genera e accudisce una vocazione vuole diventare la sua unica padrona, e quindi recide i rami che fuoriescono dalle siepi domestiche, le persone finiscono per essere consumate dalla propria comunità, in rapporti oggettivamente incestuosi anche quando tutto è animato solo da buone intenzioni. La potatura necessaria dei rami non deve diventare amputazione del disegno vocazionale.
Il consumo per usi interni che è tanto più probabile quanto più la persona è bella e piena di talenti, perché non è facile capire che quella bellezza e ricchezza potranno vivere e crescere solo se donate generosamente. Un francescano viene al mondo per fare migliore la famiglia umana non solo la famiglia francescana, e potrà migliore il francescanesimo se è lasciato libero di occuparsi d’anche d’altro. Il nostro posto al mondo non coincide con il posto in cui viviamo.

La possibilità concreta dell’uscita è dunque essenziale per chi parte, ma anche per chi resta, perché i "nipoti" e il futuro dipendono sostanzialmente da questa castità e generosità organizzative (genitori che consumano i loro i figli non diventano mai nonni). Questo vale in ogni forma di comunità, anche in un convento di clausura, dove l’esperienza dell’uscita non è meno radicale perché, quasi sempre, è tutta interiore.
Le forme di uscita e di ritorno sono molte, tante quante sono le forme che in ciascuna persona assume un cammino esistenziale – dunque, sono infinite. Qualche volta ciò che appare a noi e a gli altri come una uscita (fisica o spirituale) in realtà è un restare tranquilli e al caldo dentro casa; altre volte solo dopo molto ci accorgiamo che eravamo usciti e tornati e noi pensavamo di non esserci mai mossi né col corpo né col cuore – eravamo rimasti solo perché avevamo paura di lasciare, avevamo smesso di credere alla promessa, eravamo diventati atei anche continuando a pronunciare le preghiere di sempre. Perché la vita sarebbe troppo semplice, e molto noiosa, se le cose rispondessero ai nomi che noi diamo loro. Ci sorprendono, ci spiazzano, amano giocare con noi a nascondino. Quando saliamo su un monte non sappiamo quasi mai se stiamo arrivando sul Tabor o sul Golgota, se ci aspettano tre tende o tre croci. Solo mentre abbracciamo una croce, nostra o degli altri, scopriamo che quel legno rilascia lo stesso odore della falegnameria di nostro padre; e lì capiamo che abbiamo lavorato tanti anni in quell’officina polverosa solo per riconoscere in quell’ultimo odore lo stesso profumo di casa, quello dei vestiti di Giuseppe e di Maria.

La Sapienza biblica ci dona alcuni paradigmi di uscita e di ritorno, che tracciano alcune coordinate antropologiche e spirituali entro le quali collocare alcune nostre esperienze concrete.
Un primo modello lo troviamo nella storia di Giona. Questo profeta riceve da Dio una chiamata a svolgere un compito, andare a profetizzare alla città di Ninive. Ma Giona scappa in direzione diametralmente opposta, e si imbarca su una nave verso Tarsis. Non sappiamo dal racconto perché Giona fugge. Ciò che ci interessa è perché ritorna. Mentre fugge, sapendo di fuggire dalla sua vocazione, Giona fa infatti una esperienza decisiva che lo farà tornare. Dio scatena una forte tempesta sul mare, e la nave sta per affondare. Giona non si accorge della tempesta e dorme, e poi dice ai marinai: «Prendetemi e gettatemi in mare... perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia» (1,12). Giona sente che la causa della disgrazia che sta colpendo la nave è la sua uscita. Chiede di essere gettato in mare, si salva (grazie alla balena), e ritorna al suo compito. Un racconto di una profondità umana sbalorditiva, e quindi spesso non compreso.

Una forma del ritorno è il ritorno di Giona. Si esce, si fugge perché in certi momenti non si può non uscire, e a un certo punto si sente chiaramente che esiste un misterioso ma realissimo rapporto tra la nostra uscita e il dolore della nuova gente che ci sta attorno. Capiamo che siamo noi la spiegazione del dolore degli altri («io so», dice Giona). Vediamo un legame tra la sofferenza nella nostra impresa, la disgrazia di quella famiglia, la malattia di questa bambina, e la nostra fuga. Stavamo dormendo sulla nave sbagliata, ma un giorno qualcuno o qualcosa ci sveglia e al risveglio avvertiamo con una certezza interiore infallibile che se noi non fossimo saliti su quella nave sbagliata quel dolore non ci sarebbe. E, qualche volta, si riesce a tornare. Altre volte invece non si torna, perché è troppo tardi, o perché ci lasciamo gettare nel mare e la "balena" non arriva a salvarci. Ma ogni tanto, come Giona, dopo quel ritorno avvengono autentici miracoli, le nostre parole convertono e salvano intere città, persone e animali. Ma noi non lo sapevamo: eravamo tornati solo per salvare quella nave che stava affondando per la nostra fuga.

Un secondo paradigma di uscita e di ritorno è dentro la storia di Giuseppe in Egitto. L’uscita di Giuseppe dalla sua famiglia, da suo padre Giacobbe e dai suoi fratelli, è tra le storie bibliche più belle e popolari. Il giovane Giuseppe era un sognatore e un narratore di sogni. Il racconto comunitario di questi sogni accrebbe nei suoi fratelli l’invidia verso di lui, che un giorno lo vendettero a dei mercanti in viaggio verso l’Egitto. In quella terra straniera, Giuseppe, proprio grazie alla sua vocazione e competenza in materia di sogni, riesce a diventare una importante personalità politica. E quando i fratelli, anni dopo, durante una grande carestia si recano in Egitto in cerca di grano e di vita, lì trovano Giuseppe, il fratello venduto, che li salverà.

Non è raro che siano i sogni più grandi, quelli eccedenti le mura di casa, a farci uscire, cacciare, espellere – le uscite dalle comunità non sono quasi mai veramente volontarie, anche quando ci sembrano tali. Quegli stessi sogni grandi e "carismatici" ci procurano l’invidia dei nostri fratelli. Vorrebbero "uccidere" il nostro carisma, e qualche volta ci vendono come schiavi. Come Giuseppe, non capiamo il senso di tutto quel dolore, il perché di tutta quella cattiveria da parte dei fratelli maggiori. Poi qualche volta arriviamo in un grande regno, in una grande civiltà. Quei primi sogni andati a male dentro casa ci fanno crescere e fare carriera in una terra straniera; finché un giorno, senza che nessuno potesse saperlo (né Giuseppe né i suoi fratelli), scopriamo che quella uscita dolorosissima era stata in realtà la salvezza di tutti: «Non siete stati voi ad avermi mandato qua, ma Dio» (Genesi 45,5-8). Si esce per salvare noi stessi, e infine scopriamo che quella uscita è stata provvidenza per noi e anche per coloro che ci avevano costretto a uscire. Sono questi esiti paradossali che rendono la vita umana qualcosa di poco "inferiore agli angeli", e non è raro che il senso vero dello spartito che stiamo suonando lo capiamo solo nell’ultima nota, qualche volta durante l’applauso finale.

Quelle di Giuseppe sono soprattutto (ma non unicamente) le uscite della giovinezza, quando dopo aver tentato sinceramente di seguire una voce, dopo qualche tempo ci si ritrova fuori, cacciati di casa, dentro una esperienza che per molti è vissuta come inganno, tradimento, cattiveria, con la rabbia di aver gettato via gli anni più belli. Ma se eravamo finiti in quella "cisterna" per seguire onestamente una voce, e se continuiamo a seguirla nella comunità invisibile del nostro cuore anche in terra straniera, quasi sempre arriva il momento della salvezza, e la pietra scartata diventa testata d’angolo dell’intera casa. Arriva molto tempo dopo, ma il suo arrivo era inscritto nella logica buona e vera della vita e della lealtà misteriosa a una voce che abbiamo continuato a seguire anche se eravamo molto confusi e delusi – di queste salvezze ne ho conosciute molte, e sono tra le esperienze umane più sublimi, per ogni Giuseppe e per i suoi fratelli.

C’è, infine, un elemento comune a molte forme di ritorno dopo le uscite. Si esce di casa da figlio della comunità, si ritorna come padre e come madre. In queste parabole di carne e di sangue, quando il giovane diventato nel frattempo adulto sente e dice "mi alzerò e tornerò da mio padre", quando arriva a casa chi trova ad abbracciarlo, a gettargli le braccia al collo e a mettergli l’anello al dito non è più suo padre: è suo figlio. In quella uscita-ritorno è diventato padre di suo padre, madre di sua madre. Ma non lo sapeva, non poteva saperlo fino al momento dell’abbraccio – e, qualche volta, continuerà a non saperlo fino alla fine. In queste feste del ritorno non si uccide il vitello grasso, perché quella è la festa della benedizione delle ghiande, unico cibo possibile e apprezzato nei giorni della lontananza e della povertà, divenute cibo di una nuova paternità.

l.bruni@lumsa.it