Eccedenze e disallineamenti /6. Il cielo s'impara scendendo
Con Mosè finisce l’alpinismo della storia sacra, che è iniziato alla rovescia, in discesa, con Noè che si ritrova attraccato alla cima dell’Ararat col suo barcone a cesto e da lì scende insieme ai rappresentanti della zoologia salvata
Erri De Luca, Sottosopra
La civiltà occidentale si è costruita attorno all’idea di ricchezza e di sviluppo intesi come accumulo di cose e come crescita. Questo principio della quantità si è poi sposato con la convinzione ancestrale che la purezza e la perfezione stiano in alto e l’imperfezione in basso; che l’impuro abbia a che fare con la terra e con le mani, e il puro con il cielo. Che lo spirito è superiore perché non è materia, non è corpo. E quindi i lavori che toccano la terra e usano le mani sono bassi, impuri, infimi, mentre quelli che usano l’intelletto sono nobili, alti, spirituali, santi. Questa visione arcaica della vita buona come "crescere verso l’alto" ha attraversato quasi indenne tutta la Bibbia, nonostante la dura lotta che i profeti, i libri sapienziali e Gesù hanno ingaggiato con essa. E, con l’aiuto di un’anima della filosofia greca e della gnosi, ci siamo ritrovati in un Medioevo e poi una modernità molto poco biblici, con trattati di mistica che leggevano la vita spirituale come scalata del "dilettoso monte", come accumulo di beni mistici, combattimento contro il corpo e la carne. Abbiamo quindi esteso la legge della crescita verso l’alto anche alla vita spirituale, immaginata come un aumento, un salire e una liberazione dal corpo per volare leggeri nel cielo dello spirito.
Ma leggere la vita spirituale con le categorie dell’accumulo e dall’allontanamento dalla terra ci allontana soprattutto dal cuore del messaggio biblico. E produce un interessante paradosso: in un tempo in cui, grazie all’azione e al pensiero di buoni cristiani e di grandi Papi, stiamo con fatica cercando di superare il paradigma della crescita e riscoprendo il valore teologico della terra e del corpo, nell’ambito dello spirito continuiamo a ragionare con le stesse categorie che vogliamo superare. Un disallineamento pericoloso e, in genere, trascurato. Eppure, Francesco di Assisi iniziò la sua straordinaria avventura umano-spirituale baciando un lebbroso, e in quel bacio c’era, forse, il messaggio più rivoluzionario e prezioso dell’umanesimo biblico e cristiano. La Bibbia è tutta un canto al valore spirituale della creazione, che ci invita a trovare Dio soprattutto nell’aldiqua, in mezzo agli uomini e ai poveri, la sua dimora preferita. Quando il sapiente Qohelet giunto al termine della sua ricerca radicale e senza consolazioni volle dirci dove possiamo trovare "sotto il sole" qualcosa di non-vano, ci indicò l’attività umana più ordinaria e corporale: «Ecco quanto io vedo di buono e bello per l’uomo: la bella felicità di mangiare e bere» (5,17).
E al culmine della storia di salvezza, per dire l’impensabile e l’impossibile il quarto vangelo non trovò una espressione più vera e meravigliosa di questa: «E il verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi». Il logos, quella parola che era già Dio, divenne ancora più Dio facendosi bambino, "nato da donna" come noi, come tutti. A dirci che se il sogno dell’uomo è diventare infinito e onnipotente come Dio, il sogno di Dio è diventare finito e impotente come l’uomo. Il Natale è immenso perché in quella luce infinita della notte di Betlemme c’è la stessa luce della notte che avvolge un bambino che nasce e nascendo la rischiara. Perché se quel bambino nella mangiatoia era vero uomo (e lo era di certo) ogni nascita è un Natale, e l’atto spirituale più puro che accade ogni giorno sulla terra è un bambino che viene alla luce dal grembo di una donna. Non finiremo mai di capire che quando i Vangeli ci hanno raccontato che il crocifisso era ancora vivo oltre la morte con il suo corpo – un corpo diverso, ma ancora corpo –, ci hanno lasciato una eredità umana di un valore straordinario, che abbiamo in buona parte dilapidato. Perché nonostante il Natale, la morte e la resurrezione di Gesù noi continuiamo a pensare la religione in modi e forme ancora incentrati sulle dicotomie puro/impuro e basso/alto e sulla benedizione associata alla crescita.
Un logos diventato carne e poi risorto con il corpo contengono, poi, una rivoluzione radicale anche nel modo di intendere il cammino spirituale. Quando si "salgono" davvero i monti Carmelo, sulla cima non si vede di più Dio e meglio il cielo, ma si vedono di più gli uomini e meglio la terra. Col passare del tempo, diminuiscono le certezze religiose, ma aumenta la conoscenza umile sull’uomo. Ma noi rimpiangiamo i primi giorni della luce e viviamo la progressiva ignoranza su Dio e lo spopolamento del paesaggio sacro come fallimento e nostalgia. E invece, forse, stiamo facendo soltanto quanto dovevamo fare, stiamo diventando semplicemente quanto dovevamo essere. Perché anche se le immagini che molta mistica ha utilizzato sono quasi sempre vette e montagne, nella vita spirituale non si sale: si scende. Il paradiso è all’inizio, nei primi giorni dell’incontro e della chiamata, che possono essere anche molti e durare molti anni. Lì, nel principio, si apre il cielo, lì vediamo gli angeli salire e scendere sulla scala del paradiso. Ma poi si parte, e la vita diventa una uscita da quel primo paradiso, perché il senso di quel cielo aperto era farci migliorare la terra di tutti, non tenerci lì in alto a "consumare" quello splendido bene spirituale. Dobbiamo, invece, preoccuparci molto se quel primo cielo ci impedisce di amare la terra.
Le cime dei monti nella Bibbia sono quasi sempre i luoghi dei santuari di Baal e della prostituzione sacra, che erano e sono molto più numerosi dei monti Sinai. La prima cima della Bibbia è Babele, e l’ascesa sul Tabor fu preparazione all’ascesa-discesa agli inferi del Golgota. Camminare nello spirito è un chinarsi verso terra non ascendere verso il cielo. È un diventare più umani non più divini, più uomini non più angeli. Scoprirsi col passare degli anni sempre più appassionati di tutto ciò che è vivo, delle parole e delle opere degli uomini e delle donne, apprezzare la bellezza ordinaria delle cose di tutti. Avevamo lasciato la nostra gente distinguendoci, a volte criticando o disprezzando, la vita "normale" di genitori, fratelli, compagni; e un giorno torniamo, li guardiamo, e ci nasce dentro il desiderio-preghiera di assomigliare ai nonni, ai genitori, persino alla buona normalità delle vecchiette vicine di casa – perché nulla manca alla vita.
La vita spirituale ci fa benedire la vita, girare per le strade riconoscenti e sempre stupiti perché siamo immersi in "cose" e persone vive e che ci amano. A stimare l’infinita bellezza del mondo, amarla al punto di sentire il dolore di doverla un giorno lasciare. Brutto e pessimo segno è invece lodare il cielo e maledire la terra, difendere Dio e condannare gli uomini, sentirsi circondati da un oceano di male dove la sola oasi buona siamo noi. È la discesa verso la terra che ci dice che quel pezzo di cielo che abbiamo visto in quel giorno lontano non era né allucinazione né fiction, ma era solo la bellissima dote delle nozze. Ogni vocazione è una parola che si fa carne, un emigrante che lascia il cielo per la terra. Nella Bibbia molti profeti hanno iniziato la loro missione con il cielo aperto e una voce che li chiamava per nome. Hanno cominciato in paradiso e hanno terminato la corsa sfiorando l’inferno del dolore del mondo. Samuele, Isaia, Ezechiele, Paolo, Geremia, Mosè furono chiamati dentro un’epifania di luce e di parole. Poi, lasciato il paradiso, sono scesi e hanno iniziano la loro storia vocazionale in cerca dell’uomo. Sono scesi dal dialogo con la voce del Sinai e hanno imparato a dialogare con gli uomini. Hanno liberato schiavi e attraversato il mare. È sotto il monte dove i profeti hanno pronunciato le loro parole più umano-divine. Dentro le cisterne, in esilio, sotto le percosse e nelle persecuzioni, nel grido inarticolato della croce.
Isaia aveva cominciato la sua missione con il cielo aperto, con angeli, parole e visioni. Ma quando giunge al culmine della maturazione della sua vocazione (cap. 21), prende coscienza del suo essere "sentinella della notte", che svolge la sua missione ascoltando gli uomini e le donne che gli si avvicinano chiedendo: "quanto manca al giorno", senza sapere la risposta. Si inizia pensando di offrire risposte alle domande degli altri su Dio, e un giorno si capisce che siamo ignoranti come tutti, ma possiamo offrire e ricevere una compagnia umana. Il cammino spirituale è un passare dalle molte chiacchiere su Dio a pochissime parole che si arrestano sulla sua soglia. Ma non lo sappiamo, non ce lo dicono, e combattiamo i disallineamenti che vediamo crescere e le carestie di parole, perché non ci accorgiamo che mentre si riducono le parole su Dio stanno aumentando le buone parole sulla vita e sugli uomini. Qualche volta dimentichiamo come si prega Dio, ma impariamo a pregare l’uomo. Il principale e forse unico segno che la vita spirituale sta fiorendo e portando frutti è diventare più capaci di umanità (nella metafora dell’albero, molto biblica, i frutti nascono sulla morte dei fiori e dei loro colori). Un esperto di vita spirituale è qualcuno che sa parlare soprattutto della vita della gente (degli amori e dei dolori della condizione umana) e che parla pochissimo di Dio, perché ne ha intuito il mistero o per curare le tante parole religiose pronunciate ogni giorno da chi conosce Dio solo per "sentito dire", e quindi non conosce neanche l’uomo.
Durante il cammino, i dialoghi intimi con la voce dei primi giorni si riducono fino qualche volta a scomparire, perché prendono la forma della creta del vasaio, di una brocca, di una cintura, di un giogo da portare per le strade della città. La luce e la vista di Dio dell’inizio erano essenziali per capire il proprio posto al mondo e partire. Poi ci sono la luce e la vista della terra, e nulla manca. Il primo e ultimo dono di una vocazione è una visione diversa e più umana della terra, della vita, delle persone. Si parte sempre per il paradiso. Ma il cammino si blocca se un giorno non capiamo che per rivedere Dio dopo i primi giorni, la sola possibilità che ci è data sono gli occhi degli uomini e delle donne, la sola vera immagine di Dio disponibile sulla terra. E così, proprio quando ci sembrava di aver fallito il nostro compito perché quel volto di Dio che cercavamo ci appariva sempre più lontano, ci accorgiamo che in tutti quegli anni spesi a guardare negli occhi uomini e donne, avevamo imparato a conoscere Dio, ma non lo sapevamo.
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