Opinioni

L'analisi. Quando il debito pubblico era una faccenda di dono

Luigino Bruni sabato 19 dicembre 2020

Se vogliamo capire come si è sviluppata l’etica economica nella cristianità medioevale e poi nel capitalismo, dovremmo cercare di abitare la sua radicale ambivalenza. La prima teologia cristiana ha fatto ampio uso del lessico e delle metafore economico-commerciali per cercare di spiegare l’evento cristiano, l’incarnazione e la salvezza. A partire dalla stessa parola oikonomia, che divenne fondamentale nella prima mediazione teologico-filosofica del cristianesimo: l’economia della salvezza, la Trinità economica. Gesù definisce il denaro (mammona) un dio suo rivale, ma lo stesso Gesù è presentato come "divin mercante", il cui sangue era stato il "prezzo" della salvezza, una redenzione "pagata" dal sacrificio della croce. Tutto il Medioevo, poi, è stato un proliferare di parole economico-teologiche: dalle anime "lucrate" al "guadagnarsi" il paradiso o il purgatorio; fino alla tradizione, molto cara ad Agostino (Sermone 9) dell’uomo come la "moneta di Dio", perché porta impressa la sua effigie/immagine. Una delle frasi riportate dalla tradizione ma non dai Vangeli né canonici né apocrifi, i cosiddetti agrapha di Gesù, citata da Clemente d’Alessandria contiene un concetto importante: «Giustamente la Scrittura ci esorta a essere un competente cambiavalute, disapprovando alcune cose, ma tenendo fermo ciò che è buono» (Stromateis 1, 28,177, fine II secolo). Da qui la tradizione del Christus monetarius, il "buon cambiavalute", perché capace di discernere tra "monete" buone e cattive.

Con tutta questa ricca complessità in tema di monete e di economia non ci stupisce trovare nel Medioevo un’ambivalenza e una incertezza morale nei confronti dell’uso proprio delle monete e dell’economia. Una premessa. Per capire la nascita dell’etica economica europea non dobbiamo mai dimenticare che mentre i teologi disquisivano sulle monete e sui prestiti, i mercanti esistevano e dovevano lavorare. I mercanti erano e sono uomini pragmatici, talmente pragmatici da sfiorare il cinismo: la moneta serve, servono i cambiavalute (erano molte le monete in circolazione), servono i banchieri. Tutti sapevano che questi operatori non lavoravano gratis, ricorrere ai loro servizi costava, e quel prezzo da pagare si chiamava "interesse", che era accettato se non era eccessivo. I mercanti veri non avrebbero mai chiamato "usuraio" un mutuo (o una lettera di cambio, o un contratto di commenda) al tasso annuo del 5%, ma neanche del 10%. Erano ben coscienti che esistevano banchieri buoni e cattivi, come esistevano monete buone e altre cattive, e che monete e banchieri cattivi scacciavano i buoni. Operavano e vivevano tra queste cose buone e cattive, abitavano nell’economia l’ambivalenza della vita.

Allora la presenza di professionisti conoscitori delle monete era molto importante per la stabilità dei commerci e quindi per il bene comune. Questo lo sapevano tutti, come tutti sapevano che quando nelle città mancavano cambiavalute/banchieri ufficiali e quindi controllati periodicamente dal Comune nei loro pesi, bilance, libri e misure, la città si riempiva di banchetti clandestini di cattivi prestatori e "bagarini", che spesso finivano in bancarotta - l’espressione deriva dal banco su cui il cambiavalute metteva le sue monete, la mensa argentaria: quando non riusciva più a pagare i suoi debiti, i suoi creditori gli spezzavano il banco. Tra il XIV e il XV secolo Venezia contava più di cento banchi, cristiani ed ebrei, Firenze settanta, Napoli quaranta, Palermo quattordici (Vito Cusumano, "Storia dei banchi della Sicilia"). Il banchiere era anche un cambiavalute, e non di rado il suo ufficio era lo stesso di quello del notaio. I banchieri erano per molti versi equiparati a funzionari pubblici, ne condividevano alcune dimensioni dello status, dei privilegi, degli oneri. A nessuna persona perbene veniva in mente di chiamare questi banchieri pubblici "usurai", anche se prestavano a interesse. Tutti sapevano che i banchieri lucravano sul denaro, vescovi e papi per primi, che da una parte erano i primi clienti delle banche e dall’altra facevano omelie e scrivevano testi di condanna del prestito a interesse sulla base della Bibbia e dei Vangeli.

La Chiesa sapeva molto bene tutto questo, era esperta di ambivalenze, anche di quelle economiche. Conosceva bene i grandi banchieri, perché erano quasi sempre legati alle grandi famiglie borghesi e aristocratiche, sedevano nei consigli di governo delle città. Ma non dobbiamo pensare che la Chiesa, nelle sue varie componenti, fosse unanime in materie di monete, commerci, interessi e usura. La Chiesa era realtà plurale e antagonista, in teologia e in materia di prassi civile, più di quanto non lo sia in epoca moderna. Non deve quindi stupirci il grande numero di libri e omelie dedicati, soprattutto tra il XII e il XVII secolo, a temi finanziari e commerciali. L’economia, dopo la teologia, fu la materia più trattata dai teologi tra Medioevo e Modernità. In questi dibattiti un grande peso lo aveva ancora il mondo monacale, antico, ricco e potente. L’ora et labora dei monasteri e delle abbazie aveva creato una sua etica economica, molto attenta ai valori del lavoro e delle cose terrene. In particolare i monaci erano i grandi nemici del vizio capitale dell’accidia, cioè dell’inattività e della pigrizia; di conseguenza la prima lode per la sollecitudine del mercante, visto come l’anti-accidioso per eccellenza, nacque nei monasteri, dove si sviluppò anche l’esegesi della "parabola dei talenti" come lode dell’intrapresa dei primi due servitori e condanna della pigrizia del terzo. Il mercante piace perché mette in circolo la ricchezza, mentre l’avaro la blocca nei suoi forzieri.

Ma la riflessione specifica sulla moneta si sviluppò soprattutto tra i nuovi ordini mendicanti, attenti osservatori, per i loro carismi, della civiltà cittadina. In questo contesto, un ruolo importante nella riflessione teologica sul prestito a interesse lo svolse la nascita dei debiti pubblici delle città commerciali, in particolare Venezia e Firenze. Interessante a questo riguardo fu un dibattito che coinvolse a Venezia nella metà del Trecento alcuni grandi teologi, centrato sulla liceità di pagare l’interesse sul debito pubblico e di vendere quei titoli di credito (al prezzo di circa il 60-70% del loro valore nominale). Dalla fine del XII secolo le città commerciali italiane si trovarono di fronte a un forte aumento della spesa pubblica, anche a causa delle spese militari. Quelle città erano di fatto dei consorzi di famiglie, una specie di società cooperativa, dove i cittadini erano anche soci e proprietari di un bene comune: la città. Nelle prime fasi le spese pubbliche erano coperte con varie forme di contributi e tasse da parte dei cittadini. Di fronte però all’esplosione della spesa pubblica, i cittadini pensarono che invece di continuare ad aumentare le loro tasse poteva essere più conveniente emettere titoli di debito pubblico. Questi titoli dovevano pagare interessi periodici (il versamento degli interessi si chiamava paga) ai creditori, nella misura del 5% annuo (stessa percentuale del coevo Monte di Firenze). Quel debito pubblico venne visto dai cittadini come un mutuo vantaggio rispetto alle tasse: a differenza delle tasse il debito pubblico pagava interessi periodici e la città copriva le sue spese pubbliche.

Interessante notare che mentre i teologi discutevano e in genere condannavano l’interesse sui prestiti privati, tanto che fu necessaria una Bolla papale (nel 1515) per rendere lecito l’interesse, sempre del 5%, chiesto dai Monti di Pietà francescani, tutti erano invece molto sereni sul pagamento dell’interesse sul debito pubblico. Il dibattito teologico a Venezia, infatti, non verteva sulla liceità dell’interesse accettato come un dato di realtà, ma sulla ragione che portava a considerare lecito quell’interesse. Protagonisti della disputa erano il francescano Francesco da Empoli, i domenicani Pietro Strozzi e Domenico Pantaleoni, e l’agostiniano Gregorio da Rimini. Il francescano accettava l’interesse sulla base della teoria francescana del "danno emergente" e del "lucro cessante": se un cittadino doveva prestare del denaro alla città (a volte i prestiti erano forzosi), la città doveva ricompensare quel danno subìto con il pagamento dell’interesse (termine usato da Francesco). Non c’era bisogno d’altro, l’interesse era un prezzo. Il francescano, poi, coerentemente non mette in discussione neanche la liceità di vendere i titoli del debito.

Più articolato era invece il discorso dei teologi domenicani, che in genere erano più critici dei francescani sugli interessi. Sulla scia di Tommaso d’Aquino, i due teologi domenicani cambiano radicalmente argomentazione e costruiscono la loro tesi sulla liceità dell’interesse su una base totalmente diversa: quell’interesse non deve essere inteso comeprezzo del denaro prestato, ma come dono per chi ha agito per amore civico: «Il domenicano non contesta la liceità dell’attribuzione di un 5% annuo ai creditori del Monte, ma ne propone una interpretazione come dono spontaneo, da parte della comunità, che manifesta così la sua gratitudine al cittadino» (Roberto Lambertini, "Il dibattito medievale sul consolidamento del debito pubblico dei Comuni", 2009). L’interesse che, coerentemente con la sua etimologia (inter-esse>), era inteso come il legame in un rapporto di reciprocità tra doni. Ma se quel 5% è dono, allora, diversamente da Francesco da Empoli, per i domenicani il possessore del titolo non può rivenderlo, perché i doni non si vendono.

Ed è qui che entra in gioco un elemento decisivo, ripreso e potenziato dall’agostiniano Gregorio da Rimini: la retta intenzione. Ciò che rende quel 5% lecito è l’intenzione con la quale la città lo paga e il cittadino lo riceve. Se l’intenzione, di uno o di entrambe le parti, è il lucro privato, quell’interesse è illecito; se è il bene comune, è lecito. Da qui la non ammissibilità del commercio dei titoli, proprio perché in chi vende e acquista non c’è più l’originario bene comune, ma solo il lucro privato. Interessante, infine, la spiegazione che dà Gregorio per affermare che la città di Venezia non aveva la retta intenzione nell’emettere quei titoli di debito. Per il teologo agostiniano, è il pagamento della stessa percentuale del 5% a tutti, senza dunque tener conto delle diverse condizioni soggettive dei prestatori, delle loro ricchezza e necessità, che rende illecito quel debito pubblico; come a dire che quella mancata differenziazione evidenzia l’intenzione di lucro e non di bene comune. È l’antica idea che l’uguaglianza sostanziale, quindi la giustizia, non coincide con quella formale.

Oggi siamo nuovamente in una fase fondativa, a livello europeo, sul senso di debiti, di prestiti, di tasse, di interessi. Quei primi dibattiti etici hanno molte cose da dirci. Ci dicono che le intenzioni contano, contano ancora in economia. I Paesi europei hanno accettato l’emissione di molto debito pubblico in questo tempo pandemico perché hanno interpretato le intenzioni di chi chiedeva e di chi concedeva prestiti. Un male comune – la pandemia di Covidc-19 – ha fatto riscoprire il bene comune, e quindi un altro interesse, il legame necessario tra debito e bene comune. In questo terribile 2020 abbiamo riscoperto anche il dono, i doni fatti e quelli ricevuti, dal dono della vita di medici e infermieri fino al dono del vaccino gratuito e universale. E se fosse anche l’inizio di una nuova economia?

l.bruni@lumsa.it

(7 - continua)