L'analisi. Quando la conoscenza era un ben comune e gratuito
Nel Medioevo era molto evidente la capacità generativa del limite. Il divieto di prestare denaro a interesse produsse una grande biodiversità di strumenti finanziari e di contratti, dalla commenda alla lettera di cambio, dalla società in accomandita alla nascita delle assicurazioni. Il commercio marittimo non poteva svilupparsi senza la remunerazione del rischio tramite qualche forma di interesse sui capitali prestati all’armatore. Ecco allora che il divieto teologico di usura portò all’invenzione di un nuovo contratto, quello di assicurazione, sdoppiando il mutuo in due componenti: «Da un lato la restituzione pura e semplice del prestito, dall’altro la promessa di ricompensa in cambio del rischio corso» (Armando Sapori, "Divagazioni sulle assicurazioni", in "Studi di storia economica" III, p. 144). Un limite teologico generò una grande innovazione economica e sociale.
Un altro ambito dove il limite teologico svolse un ruolo decisivo fu la nascita delle università. Lo sviluppo delle comunità di docenti e studenti nelle università è un fenomeno gemello della nascita delle compagnie di mercanti. Il Duecento è stato il secolo dei mercanti e il secolo delle università, che insieme hanno fatto l’Umanesimo. Entrambi luoghi di libertà, entrambe istituzioni del nuovo spirito europeo. Goliardi e mercanti misero in crisi i valori delle istituzioni del primo millennio. Entrambi sostenuti e animati dai nuovi ordini mendicanti, che erano magistri nelle università e amici dei mercanti. I goliardi erano principalmente laici, «per studiare e prima ancora per vivere e spostarsi a seguito dei maestri, ricorrevano ai mezzi più strani come fare il saltimbanco, il giocoliere, il buffone e praticare anche qualche piccola truffa» (Sapori, p. 366).
Pietro Abelardo, riferendosi ai detentori dell’antico sapere, li definiva «i filistei che tengono per sé segreto il loro sapere, impediscono gli altri di approfittarne. Noi invece vogliamo scavare pozzi di acqua viva, e tanti e su tutte le piazze pubbliche, e così ricchi di acqua che essa trabocchi e tutti ne possano dissetare» (citato in Sapori, "L’università nei secoli", p. 368). La democrazia europea è nata nei palazzi del governo delle nuove città, nelle compagnie dei mercanti e nelle università, dove il sapere si creava dialetticamente e poi diventava bene pubblico, se è vero che la democrazia è «governare discutendo» (nelle parole di John Stuart Mill e Amartya Sen). Il ruolo di questo nuovo sapere più popolare fu immenso, infinitamente più grande di quanto noi oggi possiamo immaginare.
Non stupisce allora che questi nuovi intellettuali incontrassero la stessa ostilità incontrata dai mercanti, entrambi gente nova, troppo liberi e diversi per essere capiti: «Oh Parigi, fino a che punto affascini e inganni le anime! Felice scuola al contrario quella nella quale si parla solo di saggezza, e senza bisogno di corsi di lezioni si apprende come giungere alla vita eterna: qui non si comprano libri» (Pierre de Celles, citato in Sapori, p. 369). Questi stessi detrattori delle nuove università e dei goliardi, odiavano anche i liberi Comuni, definiti come "nuova Babilonia", perché Dio non ama le città, essendo Caino il fondatore della prima (Ruperto da Deutz).
Ma l’analogia mercanti-intellettuali non si ferma qui. Nel primo millennio non era solo il tempo ad appartenere a Dio, da cui nasceva la più antica giustificazione del divieto di prestito a interesse. Anche la conoscenzaera considerata dono di Dio e in quanto tale non commerciabile, da donare gratuitamente. Si comprende allora come i dibattiti sul divieto dell’interesse sul denaro fossero simili e paralleli alle dispute sul divieto per i magistri di farsi pagare per le loro lezioni. Anche nella trasmissione della conoscenza la gratuità, il sine-merito, era la norma, e il pagamento, il pro-pretio, l’anomalia.
La più autorevole fonte medioevale di tale divieto era Bernardo di Chiaravalle, che nel suo commento al Cantico dei cantici aveva scritto: «Scientia donum Dei est, unde vendi non potest» (la scienza è dono di Dio, quindi non può essere venduta). Una tesi che era stata fatta propria dal terzo (1179) e poi da quarto (1215) Concilio Lateranense, quindi da papa Gregorio IX del 1234 (nel Liber Extra) - il papato fu un grande difensore delle nuove università, che erano istituzioni pontificie. Un divieto che ebbe un grande peso nella prassi delle istituzioni universitarie e scolastiche medioevali; sebbene spesso la prassi (come con l’usura) si muovesse in direzioni diverse. Scriveva il canonista Roffredo da Benevento: «Ai nostri giorni è di uso comune che gli insegnanti prendano i libri degli studenti in pegno per il pagamento dell’incasso».
Il riferimento all’autorità di san Bernardo in materia di gratuità non era casuale. La gratuità dell’insegnamento era infatti eredità della grande tradizione monastica. Per molti secoli i monasteri erano le principali se non le uniche scuole in Europa. Si insegnava la fede, ma anche grammatica, musica e matematica, a monaci ma anche a laici, soprattutto giovani. Ed è qui che si afferma la prassi della gratuità. In un documento de l’888 si legge riguardo le scuole: «Ut turpi lucro et negotiationibus non inserviant» (affinché non servano il turpe lucro e gli affari). E il Concilio di Londra nel 1138 ribadisce: «Ut scholas suas magistri non locent legendas pro pretio» (i maestri nelle loro scuole non impartiscano lezioni a pagamento, § XVII).
A partire dal XIII secolo, i nuovi maestri, iniziarono a distinguere. Bartolomeo da Brescia sosteneva che il maestro non deve insegnare per denaro, ma può comunque accettare un pagamento da parte degli studenti se questo è offerto come dono e non è obbligatorio. Una soluzione simile, si ricorderà, a quella che portò alla liceità dell’interesse sul debito pubblico, inteso come libero dono. Altri ancora distinguevano tra maestri e studenti ricchi e poveri: solo gli studenti poveri non devono pagare e solo i maestri ricchi devono insegnare gratis. Il celebre canonista bolognese Tancredi, ad esempio, specificava: «Quando il maestro riceve un beneficium sicuro e protetto non deve chiedere soldi per l’educazione che dà» (in Emma Montanos Ferrín, "Scientia donum Dei est"). Raimondo de Peñafort, domenicano, invece difese e ribadì la tesi che la scienza, essendo un dono divino, non può essere venduta, e così si inimicò giuristi e medici che in genere si facevano pagare.
La gratuità della conoscenza fu infatti rafforzata e rilanciata quando attorno alla metà del Duecento francescani e domenicani entrarono in massa nelle nuove università e fondarono anche i loro studia, spesso collegati con quelle università. Sui 447 maestri in teologia conosciuti a Bologna tra il 1364 e il 1500, 419 erano Mendicanti. I domenicani erano più a loro agio "carismatico" con gli studi, per il loro carisma di predicazione. Per i francescani il discorso era più complesso e meno lineare. Un’anima dell’ordine non ha mai accettato serenamente gli studi e le università: «Mal vedemo Parisi, che àne destrutt’Asisi» (Jacopone da Todi, "La Laude", 92). Sta di fatto che anche i francescani hanno generato magistri di valore assoluto, tra i maggiori teologi del Medioevo. Domenicani e francescani fecero delle università luoghi privilegiati di reclutamento di nuove vocazioni, e alcuni maestri (per esempio, Alessandro di Hales) presero l’abito. Ma non c’era solo questo. Quei primi Mendicanti erano molto attratti e sedotti dalle nuove università. Prima di diventare i titolari delle facoltà di teologia, all’inizio si recarono a Parigi o Oxford per imparare, affascinati da quel mondo nuovo e da quella libertà di docenti e studenti che sentivano simile alla loro. Erano figli e propagatori dello stesso spirito. Il felicissimo incontro tra questi due mondi diversi e simili ha dato luogo a un processo straordinario e decisivo per la civiltà europea.
Gli effetti collaterali dell’arrivo dei mendicanti nelle università furono molti. Nei libri, ad esempio. Soprattutto tra i francescani il prezzo dei libri era oggetto di attenta regolazione (per il prestigio pauperistico). Questo altro limite fece sì che il libro non fu più soltanto il codice miniato, costosissimo e riservato a pochi. Nacque il progenitore del manuale, il libro orientato all’insegnamento e all’apprendimento, e quindi meno caro e accessibile a molti più lettori e studenti. Inoltre, essendo i maestri francescani e domenicani incardinati nei loro ordini che li dotavano di una prebenda per vivere, tornò la tradizione antica dell’insegnamento gratuito (all’inizio i maestri laici si facevano pagare), che è poi continuata con la creazione delle migliaia di scuole degli ordini religiosi femminili e maschili nell’età moderna e contemporanea, e con la scuola pubblica del XX secolo.
E oggi? Che resta di questa grande eredità? Innanzitutto dobbiamo riconoscere che nel Novecento qualcosa non ha funzionato nella trasmissione dell’insegnamento dai monaci-frati-suore ai docenti laici. Quella gratuità, soprattutto nel lato dei docenti, era accompagnata da istituzioni (ordini, conventi, congregazioni) che garantivano loro la sussistenza e una vita decente. Quando i docenti sono diventati i laici, la meravigliosa idea della gratuità della conoscenza si è tradotta in stipendi troppo bassi, soprattutto nelle scuole elementari, medie e superiori (e nei primi anni di carriera universitaria), ancora di più in quei paesi dove l’eredità educativa gratuita della Chiesa era più forte. E così, ancora una volta, non siamo stati capaci di trasformare politicamente un patrimonio etico in una giustizia civile, per "mancanza di pensiero". Quell’antica cultura cristiana sapeva bene che la conoscenza è un bene talmente prezioso da chiamarlo divino; e per questo lo aveva guardato con grande attenzione, sottraendolo alle logiche del turpe lucro, per proteggerlo. Oggi il capitalismo sa molto bene il valore economico della conoscenza, e mentre lascia indigenti maestre e dottorandi fa della formazione for-profit (pro-pretio>) una delle sue nuove industrie globali più redditizie.
Infine, arriviamo al messaggio più prezioso di quell’antico dibattito. Quei canonisti sapevano che la ragione della gratuità della conoscenza non è l’assenza di valore. Vale invece talmente tanto da considerarla bonum dei: un bene di Dio. Torna qui l’antica idea che la gratuità non corrisponde a un prezzo pari a zero ma a un prezzo infinito. Gli antichi sapeva che la conoscenza ha un "costo di produzione", ed è molto elevato. Renderla accessibile senza il pagamento di un prezzo significa allora riconoscere che la conoscenza ha natura di bene comune, non è un bene privato di mercato, è un pozzo di acqua viva, una piazza pubblica. E come in tutti i beni comuni, è la comunità a sostenere i costi di produzione e di gestione, perché le riconosce un valore strategico, e non vuole escludere possibilmente nessuno dal loro uso, soprattutto i poveri - non dobbiamo dimenticare che ogni volta che una comunità crea un bene comune sta rendendo i suoi poveri meno poveri. Monaci, monache e frati hanno custodito per un millennio e mezzo la natura di bene comune della conoscenza. Una eredità infinita, a noi continuare a custodire i "pozzi di acqua viva" di ieri, e scavarne di nuovi.
l.bruni@lumsa.it
(15 - continua)