L'analisi. Perdoni e seconda contabilità del capitalismo meridiano
L’osmosi tra il chiostro e la mercatura fu molto più ampia e profonda di quanto comunemente si racconti. I mercanti più ricchi, già nel secolo XI, facevano istruire i loro rampolli nei monasteri, tanto che in molte lingue europee la parola chierico è stata usata per molti secoli anche per impiegati e commessi di affari (clerk in inglese significa ancora questo). E non a caso si parlava di professione sia per il monaco sia per il lavoro dei laici. I mercanti non erano affatto incolti e illetterati, ma, a modo loro, erano parte essenziale dello stesso movimento umanista dei filosofi e degli scrittori – ieri e oggi i mercanti iniziano a decadere quando smettono di essere umanisti, perché diventano schiavi del sofista di turno.
Non avremmo avuto lo straordinario successo dei mercanti medioevali senza il ruolo culturale dei monaci: quella nuova classe si impose anche per la cultura appresa nei monasteri. A partire dal XII secolo ai monaci si aggiunsero i nuovi ordini mendicanti, che diversamente dai monaci vivevano nel cuore delle nuove città, di cui plasmarono cultura, architettura, etica. Non capiamo quel primo "capitalismo" senza il contatto quotidiano tra commercio e carismi mendicanti, che portarono la fede sotto le logge dei mercanti e i mercanti dentro i chiostri dei conventi. L’umanesimo e il rinascimento sono il frutto di questa alleanza, spesso esplicita, tra mercanti e religiosi. È dentro questa alleanza improbabile che si trovano le radici dei successi straordinari dell’economia occidentale e anche delle sue ambiguità.
Un’alleanza testimoniata dai libri di teologia e dai libri contabili. In quei secoli la fede entrava dentro le voci del bilancio d’esercizio, non era affidata a nessun bilancio sociale. Il conto intestato a "Messer Domineddio" era un conto accanto agli altri. Nei "libri segreti" della compagnia dei Bardi di Firenze, leggiamo: «Dovemo dare per Dio libre 1876, 10 fiorini, nel luglio 1310», e poi si rimandava al Quaderno della ragione, «dove pure erano iscritti» (Armando Sapori, Mercatores). Il conto Messer Domeniddio si trovava non solo nel "libro segreto" (quello cioè degli interessi sui dividendi, e dei depositi di ogni singolo socio della compagnia), ma anche nel "Libro della ragione", che conteneva le voci di "dare et habere" e i conti mastri – ragione da cui deriva il termine "ragioniere" e "ragioneria". Il conto per Dio era trattato come un qualsiasi conto ordinario, tenuto esattamente come gli altri conti dei soci: «Vi si parla della "parte" di Messer Domineddio come si parla della "parte" di messer Ridolfo, di messer Nestagio, e delle parti di tutti i compagni». Nel bilancio del 1312, «i poveri ricevettero lire 661, quanto cioè Cino di Boninsegni che aveva due parti della compagnia».
I rappresentanti nella compagnia di Messer Domineddio erano dunque i poveri, e «i poveri si consideravano come compagni della compagnia, e per loro valevano tutte le pattuizioni del contratto sociale riguardante la divisione dei guadagni» (Sapori, Mercatores). Certo, era un altro mondo, ma leggere "dare per Dio" nel bilancio di quelle prime società multinazionali, non lascia indifferenti. E mentre destinavano parte dei loro dividendi a Messer Domineddio, quei mercanti praticavano ampiamente l’usura. Gli usurai, lo sappiamo, erano parte essenziale del paesaggio civile medioevale. Il banco si apriva su concessione del Comune, cioè con un contratto pubblico tra la città e l’usuraio, che dovevano avere la fama di "pubblico usurario". Erano cristiani ed ebrei, ben riconoscibili dal loro banco col tappeto sopra il quale se ne stavano seduti sotto la loro tenduccia, ben in vista nelle vie centrali della città.
Nel 1417, per esempio, a Pistoia c’erano quindici usurai pubblici. Tra i pegni del Banco dei pegni di Pistoia, gestito da un cristiano, troviamo molti strumenti di lavoro degli artigiani. Piero, mugnaio, lasciava in pegno, impegnava, una «cioppetta [veste] femina, bigia, vecchia, intigniata»; un sarto di Montepulciano una «scarselletta [borsello] rotta, cattiva», e Bartholomeo di Filippo da Verona, «calze nere, vecchie, triste»; e poi seghe, mazze, pelli, vomeri (L. Zdekauer, L’interno di un banco di pegno nel 1417). Quei pegni erano quindi oggetti e strumenti di lavoro degli artigiani; e, nel caso frequente di perdite al gioco d’azzardo (uno motivi più comuni del ricorso al prestito), danneggiavano le città. Dall’elenco dei pegni colpisce la provenienza dei debitori: erano quasi esclusivamente forestieri, segno che andare da usurai era considerata azione vergognosa, da farsi quindi dove non si era conosciuti. In questo contesto si comprende meglio l’urgenza sociale della nascita dei Monti di Pietà dei francescani, che sorsero a imitazione dei banchi dei pegni esistenti («come s’è fatto pei Monti dei Giudei», si specifica nel 1471 a Siena, in occasione dell’istituzione del Monte di Pietà).
Leggendo questi antichi archivi colpisce l’assenza delle famiglie dei grandi mercanti-banchieri dagli elenchi degli usurai. Se, infatti, un mercante svolgeva anche la funzione di banchiere, questa seconda attività feneratizia (dal latino fenus: interesse, usura) veniva considerata ausiliare a quella mercantile, e quindi non chiamata usuraia. Torna la profonda distinzione, che attraversa l’intero medioevo, tra grandi e piccoli mercanti, i primi accettati e spesso lodati, accostati alla figura della Maddalena o a quella dei Re magi, e i secondi condannati come parassiti, equiparati a Giuda l’economo. Infatti, «dai nomi degli usurai che si incontrano nei nostri libri non risulta che alcuno appartenesse alle famiglie mercantili e bancarie degli Ammannati, dei Cancellieri, dei Visconti, Reali, Cremonesi ...» (Sapori, L’usura nel Dugento a Pistoia).
I grandi mercanti-banchieri si conquistarono poco alla volta un diritto di buona cittadinanza in un Medioevo dove la ricchezza godeva di pessima considerazione, grazie soprattutto alle loro donazioni e alle loro restituzioni. Sono infatti i testamenti dei grandi mercanti dove si può cogliere qualcosa di importante di quel primo spirito del capitalismo.
La prima disposizione che si trova in quei testamenti è l’obbligo di restituzione, rivolto agli eredi, delle usure e di ogni maltolta: «Io Iacopo, cittadino senese, sano di mente sebbene infermo di corpo, ordino che ogni usura, ogni maltolta siano restituito alle persone»; e poi aggiunge: «Le persone e i luoghi sono ricordati nel libro dei miei conti, che ora consegno a frate Ugo di San Galgano». E concludeva: «Poiché il mio patrimonio liquido non è certamente sufficiente a rendere il mal tolto, perché appunto le usure e cattive acquisizioni sono moltissime, voglio e impongo che i miei beni siano venduti» (Sapori, Mercatores).
Inoltre, le corporazioni imponevano che a ogni inizio di anno una commissione, composta da mercanti e da frati, passasse di negozio in negozio per chiedere, sotto pena di espulsione, che i mercanti si perdonassero l’un l’altro le rispettive usure, in una sorta di patto di misericordia (che non è da escludere sia stato introdotto dai francescani). E così diventa sorprendente e commovente leggere dentro i libri contabili: «Noi Francescho del Bene e compagni a dì d’agosto del 1319 perdonammo a Duccio Giunte e a Geri di Monna Mante, sindachi dell’Arte, a tutti quelli de l’Arte ch’avessero avuto da noi merito; e i suddetti sindachi perdonarono a noi» (Sapori, Mercatores). Era un capitalismo dove nei libri contabili si trovavano i conti a Messer Domineddio, si parlava di perdono e di misericordia, e dove l’usura si chiamava "merito" e i Monti di Pietà "sine merito".
In quegli stessi anni, i teologi francescani (per esempio, Olivi) stavano legittimando il prestito a interesse. Ma non tutti i mercanti leggevano i trattati in latino di quei maestri, e soprattutto sapevano bene quando l’interesse da loro praticato era stato eccessivo, quando i profitti erano stati sbagliati, al di là dei divieti delle leggi. E quelle operazioni diverse, fatte soprattutto all’estero dove non potevano essere osservati dagli amici e dai frati, le avevano annotate nella loro anima e persino nei loro registri. E così, in punto di morte, quando si fanno altri conti con altri libri della ragione, quei mercanti cristiani volevano lasciare questa terra mettendo le cose a posto, e restituivano il maltolto.
Queste donazioni e restituzioni in punto di morte hanno generato buona parte delle opere d’arte delle nostre città, ospedali e opere di assistenza, beni comuni nati da questa seconda contabilità, dalla coscienza di mercanti che sapevano che una parte di quella loro ricchezza doveva essere corretta e convertita; perché convinti, o almeno speranti, che donare alla fine la ricchezza sbagliata fosse l’unica alchimia possibile per trasformare il male in bene.
Questo primo "spirito del capitalismo" meridiano non considerava benedizione tutta la ricchezza, ma solo la ricchezza buona, cioè quella purificata dalle usure e dal maltolto. E così la morte diventava il primo meccanismo di ridistribuzione di una ricchezza che produceva beni privati in vita e beni pubblici post-mortem.
Fu così che i mercanti, soprattutto i grandi e i ricchi, si fecero accettare dalla cultura del loro tempo, compensando con la morte i peccati della vita. Questa ricchezza restituita alla fine fu considerata da quel mondo molto più meritevole del "merito" che i mercanti-usurai richiedevano sul denaro prestato. I benefici di quelle compensazioni soverchiarono i costi morali delle usure. È qui che inizia a crescere la regola etica alla base della società occidentale: vizi privati, pubbliche virtù.
E se vogliamo arrivare fino in fondo al nostro ragionamento, dobbiamo allora riconoscere che quelle donazioni e restituzioni sono all’origine non solo della bellezza di Firenze e di Venezia, ma anche di molti dei guai della ragione mercantile moderna. Quei pentimenti ex-post non erano sufficienti perché gli eredi, continuatori di quelle compagnie, cambiassero etica degli affari e facessero meno profitti sbagliati e meno usure. Continuavano invece la stessa etica degli affari dei genitori, affidando la resa dei conti ai testamenti.
Stanno in questo gioco tra vite ambigue e morti sante molti paradossi del nostro capitalismo, i suoi condoni e le sue sanatorie, la filantropia del 2% dei profitti che zittisce le domande sul restante 98%, fino alla donazioni delle società dell’azzardo e delle fabbriche di armi. Quando poi, qualche decennio fa, il timore per il giudizio divino è uscito definitivamente dall’orizzonte del nostro capitalismo disincantato, i nuovi ricchissimi mercanti hanno smesso di avvertire il dovere morale di restituire alla comunità il maltolto, e quelle enormi ricchezze e usure hanno generato sempre meno beni comuni e sempre più beni privati, e la diseguaglianza si è amplificata.
E in noi cresce la nostalgia dei conti intestati a Messer Domineddio e dei patti di perdono tra mercanti, perché la fede nel paradiso di quegli antichi mercanti ci appare molto più umana e civile della fede nei paradisi fiscali del nostro capitalismo.
l.bruni@lumsa.it
(10 - continua)