Opinioni

Capitali narrativi /3. Sulle ferite della terra

Luigino Bruni sabato 25 novembre 2017

Ci sono le voci
Ci accompagnano
Ci mordono
Ci sussurrano brevissime consolazioni...
Ci comandano
ci sgridano
quasi mai ci lodano
gridano nelle notti insonni
Le voci...
Di chi sono queste voci?
Chandra Livia Candiani, Fatti vivo

Le carestie di capitale narrativo sono tanto più severe quanto più avevamo amato le grandi narrazioni che vediamo svanire. Quando in quella buona novella avevamo messo tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente, vi avevamo bruciato i desideri impossibili, era diventata il pensiero dominante che non ci faceva dormire la notte perché volevamo sognare a occhi aperti soltanto il nostro unico sogno vero. Chi ieri era stato più catturato e incantato da quella promessa che appariva sconfinata e infinita, oggi è più sconcertato e schiacciato perché la storia più bella ha smesso di parlare. Come nei terremoti, chi si trova più vicino all’epicentro subisce danni maggiori di chi viveva ai margini del cratere. Le crisi dei capitali narrativi generano molte "vittime" proprio tra coloro che per vocazione e destino sono più vicini e intimi a quella prima grande storia. Spesso muoiono e ci lasciano, non perché lo amavano poco ma perché lo avevano amato troppo. "Il re è muto" non è una denuncia né un tradimento, è soltanto un grido-canto d’amore, anche quando è il canto ultimo.

Ma a differenza dei terremoti veri, in quelli simbolici che colpiscono i capitali narrativi delle Organizzazioni a movente ideale (OMI), misurare le vere distanze dall’epicentro è tutt’altro che facile, perché sono diverse da quelle evidenti e sono quasi sempre invisibili. Gli status e gli organigramma non aiutano affatto in queste misurazioni diverse. Facciamo così molta fatica a stimare i veri danni e ancora più ad avviare buoni processi di ricostruzione, perché confondendo i veri vicini al cuore fondativo della OMI con i finti vicini, spesso facciamo le domande giuste alle persone sbagliate, che anche in buona fede ci parlano soltanto di qualche crepa sui muri; così non capiamo le vere entità dei fenomeni e dei danni, e affidiamo a mani maldestre la scrittura della nuova città. Perché, ad esempio, chi lavora regolarmente in una OMI non è sempre più vicino e intimo dei volontari, le suore di un ordine religioso non sono tutte più vicine di tutti i laici amici della comunità, e persino alcuni dei responsabili possono essere molto lontani. Persone con la stessa distanza formale dal centro del carisma/ideale hanno, infatti, distanze reali molto diverse. E così, sedute negli stessi uffici, negli stessi Cda, nello stesso coro dell’abbazia, ci sono persone che soffrono molto per la crisi del capitale narrativo, altre che soffrono molto meno, alcune che non soffrono affatto, e altre ancora che gioiscono per il crollo della "casa".

In uno scenario dove è tutto molto fluido (e ancora molto poco studiato e analizzato) e dove le certezze non si sono, una quasi-certezza comunque l’abbiamo: il primo strumento per riconoscere le persone più vicine al capitale narrativo è la conta dei danni. Quelli che avevano posto la loro dimora in prossimità del centro devono trovarsi tra coloro che hanno perso e sofferto di più. E da qui un secondo messaggio: molti dei più intimi e innamorati della prima narrazione ideale vanno cercati sepolti sotto le macerie della loro storia più bella. Se il sisma è poi molto forte, alcuni di questi possono "morire", lasciando la OMI o la comunità. "Muoiono" per la sola "colpa" di aver costruito la propria casa nel posto più vicino agli ideali e ai loro racconti. Erano semplicemente rimasti a casa, fedeli nel loro posto di vedetta, non erano partiti per le ferie. C’è poi anche un altro messaggio, che riguarda coloro che non hanno avuto danni perché sufficientemente distanti. Questi abitanti delle periferie sono di due tipi, e solo il primo è buono. Del primo tipo sono quegli abitanti che erano visibilmente e oggettivamente distanti dal centro. Del secondo sono invece i finti vicini, quelli che erano formalmente vicini ma sostanzialmente lontani. I primi sono quelle persone attorno alla comunità e alla OMI che non avevano investito molti desideri e aspettative in quella storia ideale, e che quindi non soffrono troppo quando si appanna la sua parte più intima e profonda (perché, in un certo senso, non l’avevano conosciuta mai, se non in piccolissime dosi). Questi abitanti veri delle aree meno colpite possono però svolgere un ruolo molto importante. Aprire le loro case, accogliere chi ha subìto gravi danni. Scaldarli, rimboccare le coperte, accendere il focolare, cuocere le castagne sulla fiamma, fare festa con il vino più buono. Pregare insieme. E in certe sere più terse e piene di stelle, iniziare sottovoce a raccontare ai loro ospiti le grandi storie dell’inizio, a ricordare il primo amore, ad ascoltarle come fosse la prima volta.

Con lo stesso incanto, con la stessa fiducia, con lo stesso ardore. Nicodemo ritorna finalmente nel seno materno, e rinasce davvero. Altre volte questo miracolo non avviene, ma quei mesi passati come ospiti in case con poche crepe e tanta fraternità, sono sempre dono e ristoro per il cuore, il tozzo di pane e il bicchiere d’acqua per non morire e continuare a camminare nel deserto. Molte persone affaticate e oppresse dall’arrivo della carestia di capitale narrativo, avrebbero potuto iniziare una nuova storia e forse conoscere una resurrezione vera se solo avessero trovato un amico nelle periferie ad aprirli generosamente la porta di casa. E, qualche volta, il "lontano" che ci salva dalla grande carestia è quel fratello sognatore che molti anni prima avevamo cacciato via e venduto ai mercanti verso l’Egitto, ma che non aveva cessato di amarci, ci aveva riconosciuti, e ci aveva donato il pane.

I lontani del secondo tipo sono invece profondamente diversi. Si trovano a tutti i livelli di una OMI, anche in quelli più alti. Hanno lo status di vicini pur essendo lontani dal centro dell’esperienza ideale originaria - in questo contrasto invisibile si annida il loro pericolo. Tra questi si trova un’ampia gamma di umanità, che va da chi per talenti relazionali o piaggeria è arrivato velocemente ai posti di comando, bruciando le tappe senza aver raggiunto una reale maturazione nei valori della missione della OMI, a chi non ha sufficiente profondità spirituale per capire il "carisma" ma ha imparato bene il mestiere, fino a coloro che si ritrovano dentro una istituzione o una comunità senza averlo mai veramente scelto, e cercano di galleggiare nella superficie. Molti sono in buona fede, alcuni sono anche buoni, altri sono semplicemente superficiali, pochi sono generosi, nessuno è profeta. E non avendo subito danni si candidano per iniziare i lavori di ricostruzione. Mentre i più vicini veri cercano di elaborare il lutto e hanno bisogno di tempo e risorse per curare le ferite vere e profonde, questi hanno molte energie psicologiche e fisiche da investire. E così li troviamo in prima fila, candidati per la scrittura del nuovo capitale narrativo.

Infine, quelli che avevano gioito del crollo. Una gioia triste, a volte disperata di una disperazione opposta a quella dei vicini veri. Le sue ragioni sono molte e molto diverse tra di loro. Qualche volta è una consapevole mancanza di vocazione non accompagnata da una sufficiente forza e libertà per lasciare la comunità, che nel tempo è diventata rancore e odio. Tanto dolore, sempre. Altre volte la "gioia" nasce dalla speranza di trarre un qualche vantaggio da quella fine, e magari spostano la residenza in cerca di benefici fiscali. Qui non c’è nessun amore per il primo capitale narrativo, né per i possibili nuovi racconti, anche quando alcuni di questi – che si trovano sempre mescolati con i più vicini e intimi – li ritroviamo nel gruppo di scribi scelti per i nuovi racconti dopo la grande crisi. Non dobbiamo allora stupirci se l’evidenza storica ci mostra che le grandi crisi di capitale narrativo non approdano quasi mai a una vera rinascita, perché la direzione dei lavori finisce troppo spesso in mano ai finti vicini e, qualche volta, a quelli che hanno gioito dei crolli. La nuova città in qualche modo si farà, ma non sarà la resurrezione della prima.

La rara possibilità di un buon futuro dipenderà decisamente dalla qualità e quantità dei superstiti usciti vivi dal crollo e senza troppi danni gravi (perché più giovani, più prudenti o perché si trovavano a cena da amici), e dalla generosità dei "lontani veri" nell’ospitalità. Ma soprattutto la bellezza e la profezia della città nuova dipenderà da quanti dei sopravvissuti, che hanno visto e sentito la casa crollare sopra i corpi loro e quelli dei propri figli e genitori, decideranno di restare, di ricominciare, di provare a risorgere. La paura di altre scosse future è troppo forte. E così spesso anche i vicini veri sopravvissuti scendono a valle, verso il mare nelle coste più sicure, perdendo per sempre il colore dei fiori e il profumo irresistibile dell’aria dove tutto è incominciato. Solo una nuova vocazione, un’altra voce, un sussurro di una seconda chiamata può farci ricostruire una nuova casa vicino alle tombe dei genitori e dei figli, accettando di convivere per tutta la vita con la vulnerabilità. Di ricostruire nuove case diverse, questa volta più leggere e sobrie. Non più palazzi né regge, per imparare finalmente a vivere nell’umile tenda dell’arameo.

I carismi e gli ideali collettivi più grandi nascono e crescono in aree sismiche, perché si trovano nelle zone di confine tra falde di civiltà, di religioni, di epoche. Non si vive mai comodi e tranquilli nelle città generate dai nostri ideali più grandi. Nascono sulle ferite della terra. Non dovrebbero essere lì, ma ci sono, grazie all’imprudenza agapica dei loro fondatori. Che hanno seguito il volo di un uccello bellissimo in una primavera sacra, e hanno semplicemente posto la prima pietra là dove ebbe fine quel folle volo. Non hanno pianificato la fondazione, non hanno scelto il luogo più adatto per la loro città. Il luogo ha scelto loro, perché le cose più importanti non le scegliamo, ce le ritroviamo dentro come destino e compito. E lì hanno iniziato a costruire casa dopo casa, e infine ci hanno donato una città per eredità, fragile e bellissima, insieme ai loro racconti, ancora più fragili, ancora più belli. E con essi ci hanno lasciato crinali mozzafiato, orizzonti di paradiso, interminati spazi. In altipiani ricchi di fiori rari e coloratissimi, con alte cime luminose a corona.

l.bruni@lumsa.it