Opinioni

L'anima e la cetra /28. Più grandi del nostro cuore

Luigino Bruni sabato 10 ottobre 2020

Se c’è un Altro, chiunque esso sia, ovunque sia, e quali che siano i suoi rapporti con me, anche se non agisce su di me in altro modo che con la semplice comparsa del suo essere, io ho un di fuori, una natura; il mio peccato originale è l’esistenza dell’altro
Jean Paul Sartre, L’essere e il nulla

Nell’anima c’è un luogo segreto e profondissimo dove abita una sottile e delicata malinconia. È quella che affiora quando ci accorgiamo che anche la comunione con chi ci ama si arresta sull’uscio di una intimità segreta, quella dove si trova la parte più bella e vera di noi. Sappiamo che i nostri amici, i genitori, la moglie, i figli, ci vogliono davvero bene e ci conoscono davvero, ma la conoscenza amorosa che hanno di noi non riesce a raggiungere la cella vinaria del nostro cuore. Solo se arrivassero lì ci conoscerebbero veramente, perché vedrebbero una bellezza sconosciuta, se qualcuno riuscisse a raggiungerci in quel fondo capirebbe che siamo migliori di come appariamo, che siamo più belli della persona che finora ha conosciuto. Se è vero che l’altro è «colui che mi guarda» (J. P. Sartre), è ancora più vero che l’altro non mi guarda mai abbastanza, non vede la parte migliore di me. Gli altri conoscono qualcosa, alcuni conoscono anche l’essenziale, ma l’essenziale non ci basta, in queste cose l’essenziale è troppo poco.

È lì che abita anche la nostra innocenza. In quel fondo del fondo dell’anima c’è una purezza invisibile, quella che crescendo abbiamo perduto ma non è stata cancellata neanche dagli errori più grandi, che crede in noi quando nessuno ci crede più (noi per primi). È il giardino di quell’Adam che siamo ancora, è la capanna degli indiani che costruivamo da bambini e dove ci rifugiavamo in fuga dai fantasmi, è la casa delle bambole. E in quella piccola casa, che crescendo è diventata sempre più piccola, torniamo nei giorni bui della vita, quando siamo inseguiti e condannati da tutti ma sappiamo che c’è un angolo dell’universo migliore dell’uomo e della donna che gli altri vedono. È questo rifugio invisibile che rende possibile la vita negli esili, nelle carceri, nei grandi peccati. Un giorno poi capiamo che questo scarto tra ciò che siamo veramente e ciò che gli altri riconoscono resterà sempre incolmabile, e che quella bellezza più intima sarà il segreto e la dote che porteremo nell’ultimo appuntamento. E nasce una pace nuova, una nuova riconciliazione con la vita e con gli altri, smettiamo di lamentarci per non essere amati abbastanza. Perché capiamo che è l’esistenza di questo nucleo di bellezza protetto dallo sguardo degli altri a rendere l’esperienza della reciprocità e del riconoscimento sempre insufficiente. Alle reciprocità della nostra vita dobbiamo chiedere molto, ma non dobbiamo chiedere troppo.

La Bibbia non conosceva l’inconscio né la psicoanalisi, e non sapeva, diversamente da noi, che in quell’angolo nascosto ci sono accumulate molte cose diverse. Ma conosceva gli uomini e le donne, e conosceva Dio. E così ci ha detto qualcosa di importante, che resta vero anche oggi che abbiamo conosciuto gli altri “abitanti” invisibili di quella nostra intimità. Ci ha detto e ci dice che quel fondo inesplorato è abitato da un ospite buono che vi ha preso dimora da sempre, che lo conosce meglio di come pensiamo di conoscerlo noi. Ci dice che quella certezza di essere migliori di come siamo diventati è tutto amore, è il primo dono di Dio per noi, il dispositivo con cui continua ogni giorno a salvarci: «YHWH, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta... Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile» (Salmo 139,1–6).

La conoscenza di cui parla questo Salmo, tra i più alti e poetici del Salterio, non riguarda un’astratta conoscenza o onniscienza di Dio. La conoscenza “meravigliosa” che interessa qui al salmista è la conoscenza che Dio ha di noi, che ha di lui, l’autore del salmo, che ha di me, di te. È l’esperienza di essere conosciuto da uno sguardo amico e più profondo di quello degli altri, più amico e più profondo del nostro stesso sguardo: “per me inaccessibile”. Ci è donata qui una radice profonda della fede biblica. La fede è prima di tutto l’esperienza di essere guardati dentro, di essere al centro di una intelligenza buona. Sono amato perché sono guardato, amato mentre sono guardato in quel fondo dove risiede il mio mistero. Allora la fede biblica prima di essere un insieme di norme e di verità in cui credere, è l’esperienza personale di questo sguardo profondo. La religione può iniziare con il culto e con la legge, ma la fede inizia quando ci si sente guardati, visti e chiamati per nome.

Gli uomini hanno da sempre intuito di essere visti da Dio e dai suoi spiriti, di vivere sotto uno sguardo invisibile dall’alto. Ma in genere era una esperienza di angoscia. L’uomo antico aveva paura dello sguardo degli dèi. Si nascondeva, voleva fuggire, perché essere visto era l’esperienza del disvelamento dei peccati e quindi della colpa. Era lo sguardo del giudice, l’occhio di chi ci vuol vedere per condannarci. “Dio ti vede”, era strumento di impaurimento e di terrore. La Bibbia opera anche qui una rivoluzione. Lo sguardo di Dio è prima di tutto sguardo d’amore, è liberazione e gioia. Dio vede anche i peccati, ma prima vede che siamo figli; vede il gesto di Caino, ma prima vede il gesto di Elohim che ha creato Adam a sua immagine e somiglianza. Sta qui l’antropologia biblica del primato di Adam su Caino, perché l’Adam abita in un angolo di cuore più intimo di quello dove alberga suo figlio fratricida. Partendo da questa intimità abitata impariamo che anche l’universo intero è sostenuto e abitato da Dio: il cielo stellato dentro di me mi fa vedere il cielo stellato sopra di me. Una esperienza che diventa subito canto: «Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: “Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte”, nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (139,8–12). Stupendo!

Se l’incontro con Dio è un essere visti dentro, allora quello sguardo c’era anche quando non lo sapevamo. Era lì, invisibile, ma presente: «Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia madre... Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, ricamato nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati quando ancora non ne esisteva uno» (139,13–16). Versi che ricordano da vicino quelli di Giobbe, ma anche le “ossa” di Geremia (20,9) e la storia della sua vocazione profetica. La fede inizia in un giorno, ma c’era da sempre. Un giorno si prende coscienza di qualcosa che preesisteva a quella coscienza che affiora in un preciso momento, quando si capisce che quella frase che stiamo scrivendo in quel giorno è parte di un “libro”. E uno dei doni più grandi che il dono della fede porta con sé – nella dimensione spiegata dal Salmo 139 la fede è davvero e autenticamente dono, prima di essere anche virtù (non fosse altro per custodirla) –, è quel mirabile esercizio che segue l’inizio della fede; quando andiamo indietro nella nostra storia, e, come con un vecchio album di fotografie, sfogliamo pagina dopo pagina il nostro passato e finalmente lo capiamo, comprendiamo diversamente le stesse foto di ieri che si illuminano d’immenso. Chi crede ha sempre creduto, e non lo sapeva.

In questi versi allora troviamo anche una splendida sintesi di cosa sia una vocazione. In principio c’è uno sguardo, sentirsi visti da un occhio che mi guarda e mi vede come nessuno mi ha visto mai. Uno sguardo che è immediatamente voce, perché mentre ci guarda pronuncia il nostro nome, ci rivela il nostro compito e il nostro posto al mondo, ci fa intravvedere che gli episodi che hanno segnato la nostra vita hanno un senso, sono i capitoli del “libro” che stavamo già scrivendo, e non lo sapevamo. È a questo livello intimo e profondissimo che si gioca il destino di una vocazione. Non è una faccenda di felicità o di infelicità (la Bibbia e la vita traboccano di vocazioni infelicissime eppure immense), né di calcolo costi–benefici (quale moneta usare?), né, tantomeno, di trovarsi nelle condizioni soggettive e oggettive di poter riuscire nel compito (la maggior parte delle vocazioni autentiche non sono “vincenti”, sono storie di insuccessi). In queste vocazioni una persona fa soltanto e semplicemente quello che è, quello che ha visto mentre è stata vista, quello che scopre di essere sempre stata e che sarà: «Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti» (139,8). Questa non è una visione fatalista o statica, come sarebbe se il ruolo della persona fosse solo interpretare uno spartito già scritto – senza neanche la libertà esecutiva di uno spartito jazz. Una vocazione si muove tra libertà massima – perché non c’è libertà più grande di chi obbedisce alla parte più vera e bella di sé – e massima non–libertà, perché quello sguardo ci segue ovunque e ci ricorda in ogni attimo chi e cosa siamo veramente. Si può uscire da una comunità o lasciare una moglie, ma non si esce dall’azione di quello sguardo.

L’impossibilità di uscire dall’orbita della pupilla di Dio non offre nessuna garanzia che non facciamo scelte sbagliate, a volte pessime. La buona notizia della Bibbia è un’altra: anche se “scendi negli inferi” per fuggire da te stesso, anche lì continui ad essere guardato e visto. E ogni volta che prenderai “le ali dell’aurora” per fuggire lontano, ovunque ti porti quel folle volo quando toccherai la tua intimità più intima lì ci sarà qualcuno che ti attende e ti ricorda che anche tu sei più grande del tuo cuore.

l.bruni@lumsa.it