L'anima e la cetra /27. E il canto ricominciò la vita
Per grande che possa essere il dolore di una perdita, subito si impone a noi il compito di evitare la perdita più irreparabile e decisiva: quella di noi stessi. Perciò nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte
Ernesto de Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico
La nostra epoca è dentro una lunga eclisse dei luoghi, e quindi del senso della terra. Con il progressivo disincanto del mondo non abbiamo smesso solo di credere che la terra fosse piena di dèi, abbiamo anche dimenticato che i luoghi hanno un’anima, diversa ma non meno viva ed efficace di quella delle persone. Abbiamo inventato lo spazio, quello anonimo e razionale delle mappe, e così abbiamo disimparato a riconoscere i luoghi con le loro vocazioni uniche, i loro segni, con il loro destino. Nella Bibbia, Dio è una voce che parla nei luoghi. Dio non è u-topico, perché ha il suo luogo: un altare, un monte, un tempio. Luoghi che non catturano Dio (che resta libero dai nostri e dai suoi luoghi), ma conservano per sempre le stigmate del suo tocco. L’uomo biblico può essere nomade ed errante perché il tuo territorio è marcato dalla presenza vera di Dio, e così anche se pellegrino non è mai spaesato. Il tempo e lo spazio sono spesso nemici; il luogo è invece amico del tempo, perché è lì – in quella comunità, in quella famiglia, in quella terra – dove le generazioni si trasmettono la vita. E i beni comuni non si distruggono se da spazio diventano luogo.
Avendo dimenticato il linguaggio dei luoghi non capiamo cosa sia nella Bibbia l’esilio. Per capirne qualche dimensione dovremmo paragonarlo a una nostra esperienza estrema: il lutto. Perché sia nell’esilio babilonese sia nel lutto c’è la crisi della presenza. E come nei grandi lutti si fa l’esperienza dello sradicamento, ci si svuota di certezze e valori e rischiamo di passare anche noi con chi è passato, di morire con chi è morto, in quell’esilio babilonese la grande sfida fu quella di riuscire a non morire insieme alla patria, al tempio distrutto, alla terra promessa, al loro Dio sconfitto. Non stupisce allora che Ezechiele nel suo libro chiami con lo stesso nome - "la luce dei miei occhi" - la moglie morta e Gerusalemme distrutta.
L’elaborazione del lutto (operazione oggi difficilissima) è riuscire a non lasciar andar via del tutto dalla nostra vita la persona amata evitando però che il suo continuare a vivere in noi comporti l’inizio della nostra morte. L’elaborazione dell’esilio fu per Israele la grande impresa di non dimenticare Sion, ma neanche di ricordarla troppo e quindi morire insieme a essa: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre» (Salmo 137,1-2). È lo stupendo salmo dell’esule, forse l’elegia più bella della Bibbia. Il salmo che più di tutti ci racconta, in presa diretta, il processo spirituale ed etico collettivo con cui Israele tentò di dar senso alla sua tragedia più grande, per continuare a vivere.
Ia prima immagine che ci raggiunge è quella di uno sciopero dei musicisti, forse di un gruppo di ex-cantori del tempio. Hanno appeso le cetre sui rami dei salici (o dei pioppi) che crescevano lungo le fertili sponde dei fiumi di Babilonia. Lì sedevano insieme, insieme piangevano. E un giorno smisero di cantare. Un digiuno corale di artisti, forse il primo della storia umana. Forse per questa ragione il Salmo 137 è stato molto amato dagli artisti, dai musicisti e dai poeti (da Camoes a Verdi, da Bach a Quasimodo). Non si canta in "terra ignota" –adamah nekhar. In quella terra si può solo intonare il pianto funebre, innalzare il lamento rituale, si possono solo urlare parole disperate per sublimarle dentro una rappresentazione sacra (137,7-9). Ma cantare i canti del tempio no, non si può: nella terra sbagliata non è possibile. E così forte giunse la risposta di quei cantori: non possiamo. «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?» (137,4). Perché in quell’umanesimo il primo cantante e suonatore sono le mura del tempio, poi il suolo patrio, e solo alla fine arrivano gli uomini e i loro strumenti. Quei canti si possono cantare solo a Sion, e si ricanteranno solo quando si ritornerà lì. Certi "salti" si possono fare solo a "Rodi".
Il salmo poi ci fa conoscere un tipico cinismo e sarcasmo degli esseri umani: «Perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, allegre canzoni, i nostri oppressori: ci dicevano: "Cantateci canti di Sion!"» (137,3). C’è una tipica cattiveria, tra le peggiori, che costringe chi è nel pianto a far ridere gli altri – sarcasmo letteralmente significa "lacerare la carne" sarx). Come fecero i filistei – «Nella gioia del loro cuore dissero: "Chiamate Sansone perché ci faccia divertire!"» (Gd 16,25) –, come i potenti hanno sempre fatto e continuano a fare con i poveri, con le donne, con le vittime. Il quel digiuno dell’arte il popolo rivive, assieme, la stessa esperienza di Ezechiele, il grande profeta dell’esilio: «Egli mi disse: "Farò aderire la tua lingua al palato e resterai muto"» (Ez 3,26). Ezechiele sacerdote senza tempio, profeta senza parola; cantori e musicisti con le arpe mute appese. Immagini tremende e stupende che dicono molto, quasi tutto, della grammatica della vita di chi segue onestamente una voce.
A questo punto nel salmo troviamo un giuramento, o una forma di auto-maledizione: «Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia» (137,5-6). Quegli esuli erano terrorizzati dalla possibilità di dimenticare Gerusalemme e il loro Dio. Lo erano perché sentivano il fascino degli dèi di quei fiumi di Babilonia, provavano nella carne la tentazione di prestare le loro cetre a canti diversi di quelli imparati a Sion. E quindi si legarono con una promessa, fatta a Dio e insieme alla loro anima. Le promesse sono anche la corda che lega ciò che siamo oggi a ciò che siamo stati ieri per salvare dal precipizio quel che possiamo diventare domani. Ogni promessa è preghiera che chiede al futuro di non tradire la sua origine. Quando la vita ci conduce in esilio, all’inizio vogliamo solo appendere le cetre, buttare via la penna, tacere, piangere e fare lutto. La Bibbia ci dice che questi digiuni sono buoni, che anche questi mutismi sono parole di vita. Siamo spaesati, sradicati, estraniati, con dentro e in mezzo a noi una infinita "nostalgia di Sion" e di quel tempio meraviglioso, soprattutto una nostalgia infinita del Dio che non c’è più perché è stato distrutto - dagli altri, da noi, da Dio stesso. Vogliamo e possiamo solo stare seduti e alzare alti lamenti verso il cielo e la vita. Questa fase può durare molto tempo. Per alcuni dura tutta la vita, e non tornano più a casa.
Qualche volta, un resto, un piccolo resto – una parte di quella comunità distrutta, o un angolino ancora vivo nella nostra anima ferita – un giorno riprende la cetra in mano, e inizia un canto nuovo. Lo inizia lì, lungo gli stessi fiumi, circondato dagli stessi aguzzini e carnefici. Non sa perché, sa solo che deve cantare. Riesce a cantare gli stessi canti della giovinezza, e capisce che quella voce che lo aveva accompagnato durante la distruzione e poi in esilio, quella voce sconosciuta e temuta come voce di idolo o del nulla, in realtà era la stessa voce buona che gli parlava in Sion, ma non lo sapeva. Una comprensione nuova che è solo e tutta grazia, tutta gratuità. Capisce che Dio non ha paura dell’esilio, e che non c’è luogo migliore dei fiumi di Babilonia per cantare e lodare. E alla domanda: "Come cantare i canti del Signore in terra straniera?", giunge una nuova risposta: cantali esattamente come li cantavi a Sion: io abito anche qui, e non ti ho mai lasciato solo. È iniziata la fine dell’esilio.
Per alcuni questo nuovo salmo è l’ultimo canto, intonato insieme all’angelo della morte. Altri lo stanno cantando da molti anni ma non se sono ancora accorti perché lo confondono con il pianto del lutto. Non tutti gli esuli ebrei tornarono da Babilonia dopo l’editto di Ciro. Una parte non superò mai quel grande lutto, e si lasciò morire. Alcuni si integrarono con i babilonesi, e non tornarono più. Tornarono, dopo settant’anni, soltanto i figli e i nipoti di quei pochi che riuscirono a riprendere le cetre dai salici lungo i fiumi per cantare i canti di Sion in terra straniera. Tornò chi imparò a suonare in esilio. Ogni lutto finisce davvero quando riusciamo ancora a cantare. I salmi più belli di Israele furono composti quando qualcuno di quei cantori esiliati trovò le energie spirituali per riprendere le cetre in mano. Le spiccarono dagli alberi, ricominciarono il loro canto. Dagli esili torna chi impara a cantare gli antichi canti in una terra sconosciuta. Quando una nuova anima suona l’antica cetra e nascono altri canti.
Ci sono cantici spirituali, poesie, opere d’arte, profezie che nascono nei tempi della gioia e della luce, che sgorgano come eccedenza del cuore nei giorni meravigliosi della vita. Quando siamo padroni delle nostre mani e delle nostre parole, che ci obbediscono generando. Queste possono essere autentiche opere d’arte, musiche molto belle, poesie vere, profezie autentiche. Ma ci sono altri cantici spirituali, altre opere d’arte, profezie diverse che non nascono così. Queste hanno bisogno della gola incollata al palato, di cetre appese ai pioppi, di mani con l’artrite, di compositori sordi, di pittori ciechi, di relatori spastici e balbuzienti, di scrittori che parlano di Dio quando non sanno più né chi sia né se esiste davvero. Queste opere diverse non sono il frutto della nostra forza ma della nostra debolezza, queste parole non ci obbediscono perché sono libere, questi gesti non sono i nostri gesti, questo Dio non è il nostro Dio, questo paradiso è per gli altri. Queste sono le opere della gratuità, i canti che non ci dovevano essere, la spiritualità che commuove il cielo, l’umano che sfiora gli angeli. Abbiamo la Bibbia perché qualcuno riuscì a cantare in esilio, reimparò a suonare la cetra lungo i fiumi di Babilonia. E non smise più.
l.bruni@lumsa.it