L'anima e la cetra /18. Come passeri e rondini
La secchezza che si fa sorgente, la muraglia che si rompe perché Dio appaia senza apparire, è la lezione meravigliosa del salmo 84
Guido Ceronetti, Il libro dei salmi
Homo viator. Per decine di millenni l’homo sapiens è stato nomade e viandante. Seguivamo il ritmo delle stagioni e delle fioriture, inseguivamo la pista del daino e del bisonte, tornavamo assetati all’oasi e alla sorgente, esperti delle transumanze. Lo abbiamo fatto per sopravvivere, correvamo per fuggire alla morte. Poi, a un certo punto, in quel territorio solcato e segnato dai soli tempi naturali della vita, abbiamo iniziato a scoprire spazi diversi, a riconoscere luoghi speciali; e abbiamo iniziato a segnare rocce, a erigere steli, costruire altari. Nacque il sacro. Lungo le antiche piste iniziammo così a fermarci non solo per raccogliere, cacciare, ripararci, bere; cominciammo a fermarci in altri luoghi perché attratti da una presenza spirituale che lì si manifestava e mutava il paesaggio. Lo spazio divenne qualità. Da quel momento non ci bastò più mangiare, ripararci, bere e riprodurci. Non ci bastò più camminare sulla traccia del cervo. Volevamo conoscere il mistero della cerva e dei suoi percorsi, scoprire dove finivano dopo la morte coloro che amavamo, sapere chi muoveva il sole e le altre stelle. Iniziammo a fare domande nuove alle cose, e così cominciammo a vedere gli dèi. Il mondo cambiò per sempre, si riempì di parole mute, di linguaggi nuovi, di simboli. Tra di noi parlavamo lingue elementari, erano sufficienti per coordinarci alla caccia e allevare i bambini. Ma imparammo lingue nuove per parlare con la natura, con i demoni e con gli angeli - molte, quasi tutte le abbiamo dimenticate mentre rendevamo potente il linguaggio inter-umano, perché quelle altre lingue potevano vivere solo sulla debolezza della nostra.
Sono trascorsi millenni, siamo cambiati molto, ma non abbiamo mai smesso di camminare. Per le guerre, per i commerci, ma abbiamo continuato a camminare anche per vedere Dio nei suoi luoghi. Quando si giungeva alla soglia del tempio si entrava in un altro tempo, si sentivano vivi i nostri morti, ci sentivamo parenti dei santi, ci venivano donate ali d’aquila per spiccare folli voli fino a sfiorare il paradiso. Quella soglia era la porta del cielo, solo toccarla significava vincere la morte: solo per qualche ora, ma vincerla veramente. Ci dimenticavamo il dolore del vivere, ci scordavamo di essere poveri, e in quei giorni il nostro cuore provava l’ebrezza di trovarsi alla stessa altezza di quello degli angeli. Insieme a nuove paure, imparammo nuove gratitudini. L’esperienza del sacro era l’esperienza del sublime, quindi transitoria, puntuale, incarnata nello spazio e nel tempo, avveniva solo lì, e quindi presto terminava. Ed era meraviglioso, qualche volta pauroso, sempre tremendo. Era meravigliosa perché eccezionale e stra-ordinaria. Talmente eccezionale e straordinaria che persone e comunità non di rado naufragavano e annegavano in questo mare.
Per questo non c’era viaggio più amato del pellegrinaggio; ci piacevano le case eleganti e immaginate dei signori, ma soprattutto ci piaceva la casa di Dio: «Quanto amo, YHWH Sabaot, la tua dimora! L’anima mia langue e si consuma in sospiri per i tuoi atri. Cuore e sensi danzano, la mia gioia cresce via via che mi avvicino al Dio vivente» (Salmo 84, 2-3). Quanto amo, quanto è amabile, che delizia è la tua dimora: parole diverse per dire la bellissima parola ebraica che troviamo anche nel nome di David, nel canto d’amore di Isaia (5,1), nel Cantico, nei salmi nuziali (45). Non c’è nella Bibbia parola più intensa per dire amore di desiderio, il movimento del cuore - il salmo 84 è il canto di un innamorato.
Ma giunto nei pressi del tempio di Gerusalemme, il salmista ci dona come prima cosa un dettaglio: «Anche il passero trova una casa e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari» (84,4). È questa una delle bellezze più delicate e sorprendenti della Bibbia. Un uomo che chiama il suo Dio «YHWH Sabaot», cioè Dio degli eserciti e delle schiere, che giunto al tempio ci mostra un passerotto e una rondine. L’infinitamente grande che si ritrae per far spazio all’infinitamente piccolo, la dimora immensa di Dio che si rannicchia dentro il nido di un passero. L’Onnipotente che si raggomitola pur di entrare nello spazio di una mangiatoia.
La prima beatitudine di questo salmo è per l’uccellino: «Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi» (84,5). Quasi a confondere le lodi cantate dai sacerdoti del tempio con il cinguettio del passero e col garrito della rondine. Entrambi abitanti stabili del luogo più bello del mondo, cantori fissi della sua gloria, entrambi lodati e un po’ invidiati dal pellegrino abitante temporaneo di quello stesso eterno.
Ma è una seconda beatitudine il cuore del Salmo: «Oh beati sulle carovaniere i cuori dei pellegrini! Beato il popolo che la sua forza va ad attingere a te» (84,6). La beatitudine del pellegrino diventa immediatamente beatitudine del cammino: «Attraversando Bakkà [la valle delle lacrime] la cambia in una sorgente; anche la prima pioggia la ricopre di benedizioni. Cresce lungo il cammino il suo vigore» (84,7-8). È il pellegrino che trasforma la valle del pianto in sorgente, è il suo movimento che fa fiorire la terra arida. È il suo piede che feconda il deserto. Splendida reciprocità Adam-adamah (uomo-terra). Continua la custodia dell’Eden: siamo custodi della terra facendola fiorire con le nostre mani operose, ne siamo custodi lasciando su di essa la nostra impronta mentre la calpestiamo nomadi verso la casa di Dio. Queste strade sono ferite della terra da cui trapelano raggi di eternità. Non sono ancora il tempio, ma il suo desiderio le fa già tempio. Il camminare è nutrimento al cammino ("cresce lungo il cammino il suo vigore").
Questi due versetti sono carichi di simboli e di ambivalenze linguistiche, alcune delle quali ormai ci sfuggono. Il Corano (Sura III, Al-’Imran: 96) vede nella valle di Bakkà l’altro nome della Mekka, e la tradizione islamica colloca in quel deserto il peregrinare disperato di Agar (Gen, 21) e il pozzo (di Zemzem) da cui, per intervento dell’angelo, Agar attinse l’acqua per salvare suo figlio Ismaele. Furono le lacrime di Agar la prima "pioggia benedetta" su quella valle arida, fu lei la prima "viatrice in quest’arido suolo" (Leopardi). È molto bello questo legame profondo tra il salmo 84 e Agar, la schiava di Sarah, cui apparve il primo angelo della Bibbia. Lei, immagine del pellegrino povero, l’altra arameo errante, a dirci che il Dio al termine del pellegrinaggio è lo stesso che appare a una schiava e a un bambino scartato per salvarli.
Il viaggio termina, Gerusalemme è raggiunta: «È Sion, Dio gli appare» (84,8). Cosa vedeva il pellegrino nel tempio? Cosa vedere di un Dio invisibile e senza immagini? Quale teofania in un tempio vuoto, gelosamente custodito nella sua vuotezza? La teologia biblica è cresciuta e diventata un bene comune universale grazie alla capacità che ha avuto di abitare il paradosso di un Dio invisibile che pur si manifestava, la cui gloria abitava veramente in un tempio vuoto perché svuotato di ogni idolo. In un mondo antico medio-orientale popolato da un’infinità di dèi e idoli, ciascuno con il suo volto visibilissimo e con i suoi santuari ricolmi di statue luccicanti, la Bibbia riuscì a far vedere ai suoi fedeli diversi un Dio senza il bisogno di vederlo né di toccarlo. Gli bastò un luogo diverso, il tempio, per far vedere l’invisibile-reale a chi giungeva sulla sua soglia. Stare in uno spazio vuoto generò la prima innovazione teologica dell’antichità: non poter vedere e toccare un Dio che si credeva e sapeva vero, produsse un’idea di Dio non più imprigionato dentro il linguaggio dei nostri sensi. Cosa vedevano allora quei pellegrini? Non lo sappiamo più, ma certamente non vedevano statue e dipinti: vedevano colui in cui credevano per fede. Forse la fede nasce quando, pellegrini sulla soglia di un tempio vuoto, ripetiamo: "credo in te", e senza sentirla udiamo una voce vera che risponde: "Io sono".
«Un giorno solo nei tuoi cortili, più di mille altrove ne vale. Stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende dei malvagi» (84,11). Nei tuoi cortili, sulla tua soglia: il pellegrino credente è il dimorante del cortile compagno del passero e della rondine, è l’abitante della soglia, donna e uomo liminare, che sa stare sull’uscio di una dimora vuota eppure abitata. Quella soglia, assaporata un giorno ogni mille, è la migliore postazione sotto il sole. Perché è la postazione dei "custodi del tempio", quella della sentinella. La soglia è anche il luogo della profezia, di chi cammina, arriva e non entra, perché per custodire uno spazio vuoto lo protegge anche dalla sua stessa presenza. Lo spazio del profeta non è quello sacro interno al tempio ma quello profano che va dalla valle di lacrime alla soglia e poi dalla soglia alla valle di lacrime, resa fertile da quel camminare e da quella custodia.
In un altro giorno, quei pellegrini dell’assoluto fecero l’esperienza più tremenda e drammatica. Quel tempio, quella unica casa vera dell’unico Dio vero, fu profanata e distrutta da Nabucodonosor. Il Salmo 84 e gli altri salmi del tempio continuarono a essere cantati dal popolo esiliato. Ed ecco una seconda innovazione religiosa, forse quella più grande: possiamo incontrare Dio anche senza tempio, anche senza luoghi sacri. YHWH divenne pellegrino, come noi. E così la cancellazione dello spazio sacro, già in Israele tutto concentrato in quel solo tempio, consentì a quel popolo straziato di liberarsi dal bisogno del luogo sacro per incontrare Dio, di intuire che se c’è un Dio vero questo non abita in nessun luogo perché abita ovunque: «Nella nuova Gerusalemme non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (Ap 21,22).
I pellegrinaggi continuano e devono continuare, perché quando smettiamo di peregrinare in cerca di Dio camminiamo solo per cercare gli idoli nei loro atri senza soglia. Quel Dio che ci attende alla fine del viaggio già cammina viatore in mezzo a noi (Mt 18,20), senza un nido dove posarsi. E una volta giunti sulla soglia non chiedere: "dove sta Dio?", ma: "dove siamo noi"?
Se un giorno sparissero tutti i templi, se l’intero mondo diventasse un grande tempio vuoto (o lo è già?), due o più pellegrini potranno ripetere la stessa esperienza meravigliosa del salmo 84, potranno intonare, sulla sua stessa soglia, il suo canto.
l.bruni@lumsa.it