L'alba della mezzanotte /19. La più grande reciprocità
Più tardi ho appreso, e continuo ad apprenderlo anche ora, che si impara a credere solo nel pieno «essere-aldiquà» della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi – un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa, un giusto o un ingiusto, un malato o un sano –, e questo io chiamo «essere-aldiquà»
Dietrich Bonhoeffer, Lettera del 21 luglio 1944
Forse non c’è dono più grande del dono della speranza. È un bene primario. Possiamo essere sazi di merci e di ogni bene di comfort, ma morire disperati. Sempre, ma soprattutto quando attraversiamo i deserti, la terra promessa appare irraggiungibile, l’esilio infinito. Chi ci dona speranza vera e non vana, prima guarda negli occhi la nostra disperazione, l’attraversa, la fa sua. Lotta contro le false speranze, subisce tutte le conseguenze e le ferite della lotta, resiste a quella dimensione di pietas umana che porta tanti a cedere alla tentazione di offrire false consolazioni - a sé stessi e agli altri. I profeti, dal centro della notte, ci annunciano un’alba vera, che ancora non vediamo ma che possiamo intravvedere con i loro occhi. Come quando tutto attorno dice da molto tempo soltanto morte e vanitas, e un amico, un giorno, ci parla del paradiso. E, questa volta, ci sembra finalmente tutto vero, oltre i paradisi artificiali che ci avevano ingannati nell’età dell’illusione. Ed è, finalmente, tutto grazia, tutto charis, tutto gratuità: «Curerò la tua ferita e ti guarirò dalle tue piaghe» (Geremia 30,17).
Siamo arrivati ai capitoli conosciuti come "il libro della consolazione" di Geremia, un dittico che contiene versi meravigliosi, tra i più grandi di Geremia e della Bibbia. Ma per capirli dobbiamo avvicinarli con negli occhi e nell’anima tutta la prima parte del suo libro, le sue delusioni, le sue parole vere e durissime di sventura. Rivedere Geremia tradito dai suoi famigliari di Anatot, poi con il giogo al collo, con la brocca in mano, incatenato nei lacci del carcere del tempio. E soltanto dopo questi quarant’anni di deserto, arrivare sulle sponde del Giordano. Senza lo sfondo dei capitoli che li precedono, questi canti di speranza e di consolazione perdono tutta la loro forza, non ci commuovono, non ci penetrano le carni, non ci fanno esultare, non diventano una nuova preghiera tutta diversa: «Da lontano mi è apparso il Signore: Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine d’Israele. Di nuovo prenderai i tuoi tamburelli e avanzerai danzando tra gente in festa» (31,3-5).
L’annuncio di questa nuova gioia non nasce dall’oblio dei tempi del dolore e dell’angoscia. Quei giorni sono sempre presenti e vivissimi, perché è la verità del dolore di ieri che rende vera e non vana la speranza di oggi: «Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata, perché non sono più» (31,15). Il pianto inconsolabile di Rachele, moglie amata di Giacobbe-Israele, rende più vera e bella la consolazione di Geremia, perché l’avvicina alla vita vera di tutti: «C’è una speranza per la tua discendenza: i tuoi figli ritorneranno nella loro terra» (31, 16-17).
Il pianto di Rachele e la consolazione di Geremia sono l’uno accanto all’altra dentro lo stesso canto. Perché l’annuncio dell’arrivo o ritorno di un figlio non cancella il dolore per il figlio perduto, e i dolori veri e immensi non sono i nemici della gioia, ma possono diventare i suoi amici più intimi. La consolazione di Geremia è più vera proprio perché non dimentica il pianto di Rachele per figli persi per sempre. Lo guarda, lo ama, lo assume, e lo fa fiorire in speranza. E invece troppe volte, abbagliati dalla luce pasquale, non riusciamo più a vedere i tanti che continuano a essere crocifissi, non vediamo più Rachele che piange inconsolata. E crediamo che i poveri siano finiti perché, semplicemente, non li vediamo più, ben riparati nel confort delle nostre case e nei templi di chi dimenticando i crocifissi dimentica anche i risorti, o li confonde con i fantasmi spettacolari generati dai falsi profeti.
«Pianta dei cippi, metti paletti indicatori, ricorda bene il sentiero, la via che hai percorso. Ritorna, vergine d’Israele, ritorna alle tue città» (31,21). La via del ritorno a casa è, quasi sempre, la stessa via che ci ha condotto in esilio. La strada della schiavitù e quella della libertà sono la stessa strada: è soltanto la direzione a essere opposta. Basta ribaltarne il senso, darle un significato opposto. Troppa gente non torna più a casa, e si smarrisce in sentieri tortuosi alternativi, perché il ricordo del dolore del viaggio verso l’esilio impedisce di capire che la nuova libertà si trova alla fine del sentiero della schiavitù, percorso in senso opposto. Si esce da una grande crisi semplicemente cambiando il senso della stessa strada che l’ha generata. Si torna alla fede perduta facendo lo stesso sentiero che abbiamo fatto nel perderla, ma nel senso opposto. Si torna a casa rifacendo la strada che ci ha portato via, e poi tornando scoprire che quei segnali che ci avevano guidato nella fuga avevano sul retro altre lettere e altri numeri, ma non potevamo vederli fin quando non siamo tornati facendo a ritroso la strada: «Fino a quando andrai vagando, figlia ribelle?» (31,22).
Questo verso si chiude con conclusione inattesa e meravigliosa, che continua a creare problemi agli esegeti: «Il Signore crea una cosa nuova sulla terra: la donna circonderà l’uomo!» (31,22). Frase misteriosa e bellissima, come molte cose che nella vita sono bellissime proprio perché incomplete, aperte, ambivalenti, vive. Da questa apertura ambigua possiamo allora intravvedere Geremia che, sotto una speciale ispirazione creativa, torna con la mente ai giorni della Creazione, al primo soffio dello spirito, alla luce, al buio, all’Adam, alla donna, alla loro disobbedienza che generò quella parola tremenda di Elohim: «Alla donna disse: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà"» (Genesi 3,16). I profeti hanno sofferto e continuano a soffrire quando leggono questa frase, perché l’hanno vista diventare famiglie, politiche, imprese, religioni; l’hanno visto ieri, continuiamo a vederlo oggi ancora troppe volte. Forse, Geremia nel donarci la sua speranza al termine della notte, ha voluto includere anche una promessa di un rapporto nuovo e diverso tra l’uomo e donna, che lui non poteva vedere, e che neppure noi riusciamo ancora a vedere pienamente. Ogni speranza umana piena è anche speranza di reciprocità e di comunione, di incroci di sguardi alla pari, occhi diversi e uguali.
Ci eravamo appena acclimatati in questa speranza nuova e bellissima, e mentre il capitolo sta volgendo al tramonto ci dona i suoi colori più belli. Al termine della visione della promessa del ritorno a casa, Geremia tocca un suo apice poetico-profetico, e la promessa della salvezza fiorisce nei giustamente famosi versi della Nuova Alleanza. Leggiamola come ce l’ha donata Geremia, senza perderci neanche una virgola, lasciandoci ferire qui e ora: «Ecco, verranno giorni nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore» (31,31-33).
Ogni speranza grande e vera di liberazione è anche promessa di una nuova alleanza. Quando il primo patto è stato tradito, ferito, profanato, la promessa di un ritorno a casa deve necessariamente diventare promessa di una nuova alleanza. Sono i momenti, decisivi, quando il ricordo e il rinnovo del primo patto non basta più: c’è bisogno di sognare un futuro diverso, insieme. Quando siamo usciti di casa e non siamo tornati più, quando abbiamo visto l’altro che lo faceva, per sperare in un futuro insieme non è sufficiente ricordare i giorni del primo amore, aprire l’album del matrimonio. C’è semplicemente bisogno di vederci insieme domani su un altro altare, mentre ci diciamo altre parole, con nuovi testimoni, con un nuovo amore. O quando il primo patto che ci ha portato in questa comunità è diventato muto, le prime preghiere un gioco infantile, la prima storia d’amore un inganno, non ci si salva senza la promessa di una nuova alleanza, se un profeta un giorno non ci annuncia un altro patto, altre preghiere, un’altra vita. La vita non giunge a piena maturazione, se dalla prima non si giunge a una nuova alleanza, fosse anche quella con l’angelo della morte che ce l’annuncia mentre ci abbraccia. Quando si entra nel tempo della nuova alleanza, ciò che era esterno diventa interno, la Legge si trasforma in carne, si inizia ad obbedire veramente alla parte migliore di noi.
Ma Geremia ci dice anche qualcosa di ancora più specifico. Questa fase nuova e decisiva delle persone e delle comunità non è una conquista individuale e/o solitaria. È alleanza, patto, comunione. Nella nuova alleanza ci possiamo entrare solo insieme, anche se, una volta dentro, è la libertà e l’amore di ciascuno che raggiungono una fase nuovissima. I frutti sono personali, ma la conquista è collettiva. Ciascuno si ritrova dentro quella legge che ieri aveva conosciuto fuori, ma non siamo noi gli scrittori di questa nuova legge. Ci ritroviamo scritti da una mano che non è la nostra. E nascono la più grande reciprocità e la più grande libertà possibili sotto il sole. Ma mentre eravamo in esilio non potevamo saperlo. Abbiamo dovuto imboccare la strada del ritorno, riconoscerla come la stessa che ci aveva condotto in schiavitù, continuare a camminare. E, nel tramonto, incontrare un profeta che ci ha annunciato la nuova alleanza. Noi gli abbiamo creduto, e abbiamo continuato a camminare. Siamo diventati nuova creazione, la speranza vera del futuro ha salvato il dolore vero del passato. E poi abbiamo capito, o almeno intuito, che quella nuova alleanza non era l’ultima. Ancora una volta ci siamo sentiti vivi, e abbiamo ricominciato a camminare.
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