A 7 anni dalla morte di Dalla. Lucio, amico bambino che non doveva morire
Lucio era un bambino cristiano. Così l’ho sempre sentito nelle sue canzoni, lui il bambino battezzato 'Gesù bambino', come diceva nella canzone che parlava in modo velato della sua nascita, e poi così l’ho riconosciuto frequentandolo abbastanza spesso a Bologna e altrove e facendo alcune cose insieme. Un bambino cristiano il cui funerale è stato, sette anni fa, una delle più imponenti funzioni religiose avvenute nella sua Bologna. Andava a Messa la domenica sera, quando poteva, a san Domenico. Ha accompagnato la lettura fatta da Marco Alemanno del mio testo sul Compianto di Niccolò dell’Arca e spesso capitava di parlare di cose del cielo.
Appunto, un cristiano bambino, legato a una idea della fede semplice, elementare. E però passata al vaglio non solo dalla curiosità famelica di artista e dalle tante esperienze che, come quelle di tutti, han segnato la sua esistenza sotto i riflettori e nell’ombra. Ma passata pure al vaglio di una violenta inquietudine interiore che mai però ha offuscato la sua voglia di incontro, di gratitudine. Nel suo bagaglio di immagini i santi, Gesù, i preti, etc. compaiono sempre con delicatezza e rispettosa ironia. Un giorno mi disse che sapeva bene d’essere agli occhi delle persone buffo... Non era vero, per quanto eccentrico e dotato di una fisicità bizzarra, Lucio no, non era buffo. A volte poteva voler apparire quasi grottesco, ma era un modo per deviare dalla retorica che il troppo successo costruisce intorno ai personaggi. Ma certo con quelle parole indicava che la sua bellezza aveva sede altrove, che non solo si esprimeva nelle canzoni, ma aveva una specie di fonte anteriore.
In quella visione capace di incanto stava la sua vera forza, nell’attitudine di cogliere verità nella speranza di occhi incollati ai vetri dei treni, di sprofondamenti d’amore guardando «quanti capelli che hai», o una casa sul mare, il volo delle rondini. Non era un 'poeta' così come amano fregiare di un titolo i cantanti quasi per alzare di tono il loro valore. Sapeva che canzone (specie per come si intende ora) e poesia sono due arti molto diverse. E non faceva confusione. La luce positiva che le sue canzoni hanno lasciato nel cuore di tante persone è anche frutto di quella specie di fede bambina.
Le commozioni semplici, le emozioni basilari e condivise, ritratte sempre con rispetto e anche ironia, erano una specie di mondo visto da un cuore bambino, ma non ingenuo. Tuttaltro che ingenuo Lucio fu come artista, come uomo di spettacolo, come talent scout e gestore. E nemmeno fu ingenuo rispetto al fatto che le persone cercavano un surplus di anima nelle sue canzoni. Seppe dosare con libertà estrema elementi pop e jazz nella sua musica, lirica, autorialità e sperimentazione nella sua voce.
Aveva punte di sensibilità non comuni, come quando mi raccontava di esser stato l’unico durante una di quelle trasmissioni dove facevano cantare ai bambini le canzoni degli adulti (facendo pure le moine, ovvero una sorta di pedofilia dell’immaginario) a far presente che forse un bambino di nove anni non era giusto che cantasse una certa strofa di una sua canzone che conteneva certe cose. E mi diceva che né regista né autori sembravano essersene preoccupati.
La sua stessa morte ha gettato molti in uno strano sconforto, come se, appunto, fosse morto un bambino, uno che insomma non doveva morire. E anche ora la sua figura, al di là delle celebrazioni un po’ posticce che ne vengono fatte, risulta prossima e umanissima e dolce nella memoria di tantissimi.