Il messaggio di Francesco in Africa. Luci (e ferite) del diamante
C’è nei viaggi apostolici di Francesco una peculiarità che orienta lo sguardo già prima degli elementi che ne andranno a configurare l’itinerario. Ogni viaggio un messaggio, si potrebbe dire. E quello iniziato ieri a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, cui seguirà la tappa in Sud Sudan, non fa certo eccezione. Viaggio nelle guerre e nelle terre depredate e dimenticate dagli uomini (ma non da Dio), lo si può definire. E perciò viaggio di pace nel senso più ampio ed evangelico del termine.
Il richiamo alle guerre dimenticate (lo sono senz’altro quella assai sanguinosa in corso nel Paese equatoriale e l’altra che non cessa, nonostante le promesse di pace fatte davanti allo stesso Pontefice, nella parte meridionale delle terre del Nilo) è risuonato spesso sulle labbra del Pontefice, anche prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina. E se Eritrea, Yemen, Mali, Somalia e altri martoriati Paesi non sono più solo semplici nomi su un atlante, ma vengono mostrati nella loro drammatica realtà di luoghi di sofferenza e di morte, lo si deve soprattutto a papa Bergoglio, alle sue coraggiose denunce delle logiche belliche, del traffico di armi che le alimenta, delle trame di sfruttamento di popoli e risorse naturali che vi stanno dietro e degli «affari vergognosi» che ne costituiscono l’insanguinato frutto. Lo ha detto anche ieri, il Pontefice, appena giunto nella capitale congolese, in un discorso che è una sorta di manifesto programmatico di ciò che dobbiamo aspettarci da qui alla fine del viaggio.
Guerre dimenticate. E terre altrettanto, mentre vengono saccheggiate. L’Africa soprattutto, non solo preda del sottosviluppo e piena di futuro eppure scomparsa quasi del tutto dai radar mediatici, considerata dalle multinazionali solo quando si tratta di spartirsi le sue grandi risorse (il «colonialismo economico», cui ha accennato ieri Francesco), svenduta alle mire espansionistiche delle grandi potenze (la Cina, innanzitutto, ma non solo). Anche in questo
caso, negli ultimi 40-50 anni chi non ha mai smesso di accendere i riflettori sul continente “nero” (crogiuolo delle problematiche del pianeta che però, paradossalmente, è anche il più ricco di giovani, e quindi di vita) sono stati i Papi. Ricordiamo Paolo VI con la Populorum progressio e Giovanni Paolo II, con i suoi tanti viaggi e due Sinodi, come pure Benedetto XVI e lo stesso papa Francesco. Il quale anche ieri ha intimato: «Giù le mani dall’Africa. Basta soffocarla, non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare».
Ecco perché questo è anche e soprattutto un viaggio di pace. Quella pace che secondo una bella definizione di don Tonino Bello non è solo un vocabolo, ma un vocabolario. E a pensarci bene, specie dopo aver letto il primo discorso del Pontefice, quel vocabolario cui faceva riferimento il vescovo pugliese, c’è tutto nelle diverse tappe di questa visita. Pace come cammino, innanzitutto, perché essa è una conquista, una costruzione, un pellegrinaggio. E il Pontefice pellegrino, nonostante gli acciacchi, è la migliore dimostrazione di questo assunto. Pace come quel disarmo unilaterale che si chiama perdono: « Il problema non è la natura degli uomini o dei gruppi etnici e sociali – ha detto ieri Francesco – ma il modo in cui si decide di stare insieme, la volontà o meno di venirsi incontro, di riconciliarsi e di ricominciare». Pace come giustizia, il che significa limpidezza cristallina nell’amministrazione politica, bando agli autoritarismi e alla corruzione, istruzione per i giovani e le ragazze (così che non diventino schiavi nelle miniere e prostitute nelle strade), equa distribuzione delle risorse, protezione dell’ambiente naturale e dell’ecologia umana. In sostanza, pace come lotta a diseguaglianze e squilibri che possono diventare – e sovente lo diventano – cause di conflitto.
Pace come ecumenismo, soprattutto nella tappa in Sud Sudan, dove il Pontefice sarà accompagnato anche dal primate anglicano, Justin Welby. Pace, infine, come ricerca del volto del fratello, contro la serialità massificatrice del nostro tempo. Torna in mente l’immagine del diamante che ha fatto da filo conduttore al primo discorso di Francesco in terra africana: « La sua bellezza deriva anche dalla sua forma, da diverse facce armonicamente disposte». In fondo si potrebbe dire lo stesso per la famiglia umana. Quando non dimentica che dietro le guerre (specie quelle di cui nessuno parla), le ingiustizie, le terre abbandonate e le disuguaglianze tra ricchi e poveri c’è sempre il volto di chi soffre ed è immagine del volto di Dio.