Modello utile anche per l’emergenza afghana. L'ottima lezione dei corridoi etiopi
In questo momento di ampia condivisione della necessità di accogliere chi fugge dall’Afghanistan, ancorché la portata dell’obbligo e il profilo della popolazione da includere rimangano un tema divisivo, un termine si sta facendo strada nel dibattito pubblico: 'corridoi umanitari'.
Come ben sanno i lettori di questo giornale, il termine è stato introdotto nel lessico delle politiche migratorie da attori ecclesiali italiani, cattolici e protestanti. Sono essi ad aver aperto a proprie spese canali di accoglienza per richiedenti asilo provenienti da teatri di guerra e precariamente accolti in un Paese di transito: Libano, Etiopia, più di recente Niger. L’iniziativa si apparenta con altre misure di reinsediamento dei rifugiati in Paesi terzi, per iniziativa di soggetti privati, di cui il Canada è capofila a livello mondiale.
Nel momento in cui si discute di 'corridoi umanitari' per l’accoglienza di profughi afghani (che arriverebbero soprattutto dalla loro stessa patria e solo in parte da Paesi di transito), vale la pena di raccogliere qualche insegnamento da una preziosa ricerca di Ilaria Schnyder von Wartensee (University of Notre Dame, Usa) sui primi risultati del corridoio umanitario dall’Etiopia: un progetto che ha condotto in Italia circa 500 rifugiati, soprattutto eritrei, accolti in 45 diocesi italiane in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio e grazie a un finanziamento della Cei.
Come gli altri corridoi umanitari, l’iniziativa ha molti meriti: svelenisce il dibattito, proponendo un’accoglienza programmata, distribuita sul territorio, dedicata soprattutto alle famiglie. Coinvolge le comunità locali. Persegue la collaborazione tra attori sociali e istituzioni pubbliche. Mobilita svariate forme di volontariato e di partecipazione. In modo particolare, il corridoio dall’Etiopia ha introdotto la figura della famiglia-tutor, che segue da vicino la famiglia accolta, aiuta a risolvere i problemi quotidiani, sviluppa relazioni personali significative, facilita l’integrazione sul territorio.
La ricerca segnala anche alcuni aspetti che meritano attenzione. Il primo e più importante riguarda gli esiti a distanza di tempo. Degli oltre 300 rifugiati ospitati a cura delle Caritas diocesane, oltre il 35% ha lasciato l’Italia: come gran parte degli eritrei transitati attraverso il nostro Paese, hanno parenti e reti comunitarie a Nord delle Alpi e aspirano a raggiungerle. Per i diretti interessati, i corridoi e l’insediamento in Italia rappresentano una tappa.
Un secondo punto di riflessione riguarda l’accoglienza diffusa: a noi appare rassicurante, ma non è detto che per i beneficiari sia altrettanto vero. Ritrovarsi isolati, lontano da parenti e connazionali, talvolta in piccoli centri lontani dalle città, senza nessuno con cui riuscire a comunicare, può generare un senso di solitudine e spaesamento. Se poi l’accoglienza diffusa si attua in territori economicamente depressi, all’isolamento si aggiungono i problemi di reperimento di un’occupazione sufficientemente stabile e regolare.
Un terzo problema investe un aspetto delicato: molti profughi sono passati attraverso esperienze traumatiche, dai bombardamenti alla fuga precipitosa, dalle torture agli anni trascorsi nei campi profughi. Alcuni ne sono rimasti sconvolti, in forme più o meno gravi. Per questa ragione, insieme al volontariato, Ilaria Schnyder segnala l’importanza dell’intervento di servizi professionali di mediazione, e nei casi più gravi di competenze mediche adeguate. I corridoi umanitari rappresentano l’opzione più avanzata tra le possibili strategie di accoglienza. Nel momento in cui avanza l’ipotesi di adottarli per i profughi afghani, occorre raccomandare di fare tesoro dell’esperienza acquisita, affinché possano dispiegare nel modo migliore le loro potenzialità. Per le persone accolte, per chi accoglie, per le comunità e i territori coinvolti.