Ucraina. Lo stallo e la pace giusta. Perché l'Europa è il vero ago della bilancia
Sono almeno diecimila i civili uccisi in Ucraina dall’inizio della guerra secondo una stima prudenziale delle Nazioni Unite diffusa ieri. Mentre è ignoto il bilancio delle vittime sul campo di battaglia, ucraine e russe, milioni di persone sono finite sotto la soglia di povertà e milioni sono esuli dal loro Paese. Il prezzo dell’invasione russa è sempre più alto, ma cresce anche il costo che le nazioni intervenute a fianco di Kiev devono sopportare per armare la resistenza ed evitare la bancarotta dello Stato. L’impressione di molti è che questo onere stia diventando non più gestibile dal fronte schierato con il Paese aggredito.
Gli Stati Uniti, che hanno contribuito più di tutti, sono precipitati in una crisi politica che rischia di bloccare le decisioni del Congresso e, di conseguenza, i finanziamenti al governo Zelensky. Nel Partito repubblicano, che verosimilmente candiderà Donald Trump al voto del 2024, i falchi isolazionisti e sostanzialmente pro-Putin hanno approfittato della situazione per prendere la ribalta. Negli stessi giorni, il voto in Slovacchia ha premiato il socialdemocratico Robert Fico, contrario a proseguire il programma di fornitura di armi all’Ucraina. Il potenziale contributo di Bratislava in termini quantitativi è minimo (ha già conferito parte del suo non vasto arsenale). Tuttavia, i nuovi umori del pur piccolo elettorato slovacco hanno fatto suonare un campanello d’allarme in altre cancellerie e messo in moto una serie di dichiarazioni ispirate alla cautela. A esse si è unito anche il governo italiano con esternazioni del ministro della Difesa Crosetto e della stessa premier Meloni, le quali sono sembrate ridimensionare la portata dell’annunciato ottavo pacchetto di aiuti per Kiev, anticipato dal ministro degli Esteri Tajani. In queste ore, Zelensky è volato a Granada per sollecitare i membri della Comunità politica europea (una Ue allargata) a intensificare i trasferimenti di mezzi antiaerei per proteggere i suoi cieli. Proprio ieri un missile russo avrebbe ucciso 51 persone colpendo un negozio e un bar in un villaggio di Groza, vicino a Kupiansk. A questi episodi sporadici si prevede si affiancherà in inverno una recrudescenza degli attacchi alle infrastrutture energetiche per ridurre al gelo la popolazione come avvenuto un anno fa. Ma le batterie difensive disponibili sono poche e gli europei appaiono meno orientati a cederle.
D’altra parte, si ragiona, la controffensiva ucraina che avrebbe dovuto invertire l’inerzia dei combattimenti, grazie ai rifornimenti occidentali (per la verità meno massicci di quanto dichiarato), non ha raggiunto nessuno dei suoi obiettivi. Quello che non si è ottenuto sul terreno, tuttavia, lo si è avuto in parte sul mare: la flotta russa è stata costretta a lasciare la Crimea dopo perdite considerevoli, per riparare in altre basi, e Kiev ha ripreso unilateralmente le spedizioni di grano senza che Mosca riesca per ora a impedirle. Il conflitto è quindi a uno stallo e bisogna cercare una soluzione diplomatica? La congiunzione è speciosa. Una soluzione diplomatica rappresenta l’opzione sempre auspicabile e dovrebbe essere in cima alla lista delle priorità per tutti i Paesi. Ma se si riduce il sostegno all’Ucraina prima di avere un progetto complessivo per il dopoguerra, sarà il Cremlino a proporre una tregua capestro, avendo conquistato un’altra porzione di territorio e compiuto ulteriori azioni di pulizia etnica e, forse, di genocidio. I critici dicono che abbiamo mandato gli ucraini al massacro per condurre per procura una guerra di logoramento contro la Russia. Più verosimilmente, stiamo difendendo un popolo sotto brutale attacco in violazione del diritto internazionale (senza, ovviamente, che ciascuno trascuri i propri interessi nazionali). Se Joe Biden diventerà ostaggio del prevalere dei repubblicani ostili a Zelensky, sarà l’Europa il vero ago della bilancia nella crisi sul suo stesso territorio.
Dopo oltre un anno e mezzo di lutti e tragedie, possiamo fare affondare lentamente la speranza di una pace giusta, come ha sottolineato il mediatore vaticano cardinale Zuppi, e lasciare prevalere la realpolitik e la legge del più forte? Scontiamo la mancanza di progettualità e di iniziativa a livello continentale in una partita cruciale, che non si chiuderà nemmeno con un più che necessario cessate il fuoco. Come ci relazioneremo a un Putin di fatto vincitore e ormai nostro nemico giurato?
Accoglieremo nell’Unione il Paese mutilato e sempre in bilico tra nuove aggressioni e voglia di rivalsa? O abbiamo superficialmente scommesso che prima o poi ci sarebbe stato un parziale ritiro russo o l’accettazione da parte di Kiev di qualche concessione territoriale? Meno armi e più politica era una via percorribile sin dall’inizio. È mancato però un piano, un tentativo serio di portare al tavolo le parti. Oggi, una fermezza a tempo, che prima ha illuso e poi cinicamente si ritrae, risulterebbe probabilmente la scelta peggiore. C’è infatti ancora tempo per rafforzare con un consenso internazionale l’iniziativa di pace del Papa. Ma non ci sarà tempo infinito. E ogni ora persa vuole dire vite distrutte e ferite più difficili da rimarginare su entrambi i fronti.