Sport e diritti. Se atleti italiani con la pelle scura sventolano il tricolore
Mattia Furlani
Mattia Furlani, diciannove anni, nato a Marino, figlio di Marcello Furlani (altista da 227 cm.) e Khaty Seck (velocista senegalese) ha vinto la medaglia d’argento nel salto in lungo ai Mondiali indoor di atletica leggera in corso a Glasgow. Lorenzo Ndele Simonelli, nato ventidue anni fa in Tanzania, da padre italiano, antropologo, e madre tanzaniana, trasferitosi a Roma all’età di 5 anni, ha vinto la medaglia d’argento nei 60 metri ostacoli. Zaynab Dosso, nata in Costa d’Avorio, venticinque anni, arrivata a Rubiera, in provincia di Reggio Emilia all’età di 3 anni per ricongiungersi con i suoi genitori, ha vinto la medaglia di bronzo nei 60 metri piani.
A loro si può aggiungere Yeman Crippa, nato nel 1996 in Etiopia, adottato nel 2021 da una coppia di Milano, dopo un periodo trascorso in orfanotrofio ad Addis Abeba, che a febbraio ha stabilito il nuovo record italiano della Maratona, correndo in 2h06’06”. E ancora Larissa Iapichino, nata a pochi chilometri da Firenze nel 2002, talentuosissima lunghista, detentrice del record mondiale under 20, figlia dell’astista Gianni Iapichino e della campionessa Fiona May, il campione olimpico dei 100 metri Marcell Jacobs, nato in Texas da padre americano e madre italiana, cresciuto a Desenzano sul Garda o Fausto Desalu, campione olimpico della 4x100, nato a Casalmaggiore, Cremona, da genitori nigeriani, abbandonato dal padre all’età di tre anni e cresciuto da una mamma straordinaria che, con ferma cortesia, rifiutò un’intervista dopo la medaglia d’oro di suo figlio a Tokyo perché doveva compiere il suo dovere di badante.
Che cosa hanno in comune queste storie? Molto poco nell’essere storie personali estremamente diverse. Moltissimo nell’essere tutti giovani dal talento straordinario, gentili e umili come tutti coloro che sono abituati a misurarsi con la fatica, sorridenti, vincenti e capaci di indossare meravigliosamente la maglia azzurra della nazionale di atletica leggera. Non siamo mai stati così forti in questa disciplina, viviamo un momento magico che, ci auguriamo, culminerà in agosto con i Giochi Olimpici, quando tanti di loro ci faranno impazzire d’orgoglio.
Ah, dimenticavo, hanno un’altra cosa in comune: sono tutti italiani con la pelle scura. Mi chiedo quanto fotografie come quelle che stanno circolando in questi giorni, con ragazzi felici che sventolano la nostra bandiera, servano ancora per aprire una discussione seria e non ideologica sullo Ius soli, lo Ius culturae, lo Ius scholae e su ogni forma possibile di rispetto del diritto di cittadinanza. Sia chiaro: lo sport, anzi qualsiasi talento, non può essere l’acceleratore di un diritto, perché un diritto è un diritto. Punto.
Ma proprio per questa ragione non è più rinviabile una discussione seria circa quel milione di minori, nati in Italia o arrivati qui, che parlano con l’accento dialettale, che sono i compagni di classe e di sport dei nostri figli, ma che non possono essere italiani fino al raggiungimento del diciottesimo anno di età. Lo sport è spesso un acceleratore di coscienze e quei campioni con la maglia azzurra ci ricordano che dobbiamo pensare a tutti quei ragazzi e ragazze che magari hanno talenti diversi: nell’architettura, nell’arte, nell’ingegneria, nella medicina, nella poesia. E ancor di più dobbiamo pensare a coloro che un talento non ce l’hanno o non l’hanno ancora trovato.