Quando non si vogliono riconoscere verità semplici, la ragione si perde in meandri e labirinti di pensiero che recidono il buon senso. Il caso più recente riguarda la simbologia religiosa, ed è accaduto in Francia dove il tribunale di Rennes ha disposto che venga rimossa una statua di Giovanni Paolo II sormontata da una grande croce, collocata, con tutte le necessarie autorizzazioni, in una piazza della cittadina di Ploërmel nel 2006: per i giudici, la scultura sarebbe troppo «vistosa» e violerebbe il principio di laicità sancito dalla Costituzione francese e dall’art. 28 della Loi de séparation del 1905. Nel dettaglio, il Tribunale non ritiene contraria al principio di laicità la statua in sé, quanto il fatto ch’è sormontata da una grande croce, ed è posta in luogo pubblico; però, afferma, essendo opera d’arte composta di un unico blocco, non si può rimuovere solo la croce, e concede sei mesi perché venga portata altrove.Oltre a provocare reazioni, e appelli, per il mantenimento della scultura nel luogo per il quale è stata ideata e realizzata, la sentenza ha fatto nascere in alcuni cittadini l’idea d’un escamotage: comprare la piccola area sulla quale la statua insta, perché così cesserebbe la violazione della legge del 1905, che parla di «luogo pubblico», che diverrebbe di proprietà privata. Si avrebbe così una nuova dimensione giuridica labirintica.Un altro caso è derivato dalla decisione della scuola di Charleville-Mézières di impedire a una ragazza di entrare in aula con una gonna troppo lunga, perché questa rifletterebbe la sua appartenenza religiosa (islamica). Ci si è richiamati alla legge del 2004 che vieta di accedere agli istituti scolastici con segni che evochino un’appartenenza religiosa, perché questa implicherebbe un’indiretta opera di proselitismo. Anche qui, un dettaglio: la ragazza indossa normalmente il velo islamico, ma lo toglie quando entra a scuola, lo rimette quando ne esce. Quindi, rispetta pienamente la legge (ingiusta), ma ciò non basta a chi guarda persino alla gonna dal punto di vista religioso.Si scorge il profilo grottesco di questi fatti, che richiamano altri già riportati su "Avvenire". Il più clamoroso riguarda una circolare del Ministero dell’Educazione che vieta d’indossare simboli religiosi alle mamme che accompagnano i figli nelle gite scolastiche, anche se entrano in un museo, fanno un picnic, vanno al ristorante: tanto assurdo, che il divieto è stato poco dopo revocato. L’altro è delle settimane scorse, ed è l’introduzione di una specie di materia scolastica nuova, imperniata sulla laïcité, che sarà insegnata nelle scuole pubbliche da docenti arruolati per questo scopo. Non si sa se ne nasceranno questioni sindacali, o di compatibilità tra le convinzioni dei docenti e l’oggetto dell’insegnamento, certamente è stata già segnalata l’assurdità dell’assunzione di persone con compiti di propaganda ideologica in una scuola che dovrebbe essere laica.La riflessione più impegnativa è però un’altra. Quando si prende la strada della censura, e dell’illiberalità, è difficile fermarsi, si è colti da una sorta di "sindrome da divieto", si vedono cose che non esistono. Si moltiplicano le proibizioni, s’individua il proselitismo religioso anche nella forma di una gonna, si fa della laïcité un idolo, mentre la laicità vera è nata contro ogni dogmatismo, s’inseguono i fantasmi di un conflitto che non c’è più ma si vuole far rivivere in ogni caso. Purtroppo il conflitto rinasce ma solo perché s’introduce un veleno nella società e nei rapporti collettivi. L’immagine del citoyen, frutto tipico della modernità rivoluzionaria, non è più quella figura socio-normativa tramandataci dalla storia e dalla letteratura scientifica: oggi il cittadino si trova con un’identità lacerata, deve lasciare a casa la propria religiosità, agire in pubblico come spogliato di se stesso, modificare persino l’abbigliamento a scuola perché non riveli idee e convinzioni. In Francia sono già note le conseguenze di una scuola statale che esclude ed emargina la religione: già nel 1989, il Rapport di Philippe Joutard denunciava lo stato di analfabetismo religioso che si estendeva tra i giovani fino a renderli incapaci di comprendere e interpretare capolavori artistici e letterari che integrano l’identità europea e occidentale. Restò celebre, a suo tempo, la domanda di un gruppo di studenti al Louvre che chiedeva all’insegnante chi fosse quella «baby-sitter» che in tanti quadri teneva in braccio un bambino; o l’opinione di uno studente che di fronte al san Sebastiano del Mantegna pensò che le frecce sul suo corpo fosse le frecce degli indiani.In altre latitudini, la guerra ai simboli religiosi produce aberrazioni più gravi. Nella provincia cinese dello Zejiang, dopo aver abbattuto strutture religiose perché «ostentate», con croci e cupole troppo grandi, è stata presentata una proposte di legge che prevede dove le croci possono essere apposte, e dove no, come debbano essere colorate, quali dimensioni possano avere: conta che non siano visibili, specie da lontano, si confondano con ciò che le circonda. Certo, siamo in Cina, in un Paese ancora pressato da un sistema politico non democratico, ma la logica è la stessa: della religione, meno si parla meglio è, più si nascondono i segni della fede dei cittadini, più il potere è tranquillo. Ma quando si vuole negare questa verità semplice e grande, che la religione svolge un ruolo centrale nella vita degli uomini e della società, allora la ragione si perde, non si comprendono più tante altre cose.