Idee. Lo smart working può far male. La sfida è umanizzare il lavoro
Oggi siamo un po’ in balìa degli eventi, sospinti dal vento di una narrazione a senso unico, secondo la quale tutto ciò che decidiamo di definire «agile» è buona cosa, a prescindere
Correva l’anno 1973. L’economia mondiale viveva una crisi non molto differente da quella che stiamo vivendo in queste settimane. Era il tempo dello shock petrolifero, che rimanda a certe fotografie milanesi di strade popolate soltanto da biciclette e uomini a cavallo. Di fronte a questa crisi così drammatica, Mister Jack Nilles, ex-ingegnere Nasa, intuì la possibilità di remotizzare il lavoro grazie alle tecnologie dell’informazione. Una soluzione perfetta per abbattere drasticamente le necessità di spostarsi e dunque per ridurre in modo radicale i consumi energetici. Chiamò questa idea “teleworking”. Sono passati quasi 50 anni e la pandemia ha tradotto in esperienza di massa uno strumento in precedenza appannaggio (almeno in Italia) di pochissimi: meno di 600mila a febbraio 2020, cresciuti a oltre 7 milioni durante il lockdown. Tutto è accaduto molto in fretta, forse troppo. In un balzo si è recuperato terreno rispetto a Paesi che già da anni prevedono forme di remotizzazione del lavoro più o meno simile a quello che noi definiamo “lavoro agile”. E ci troviamo un po’ in balìa degli eventi, sospinti dal vento di una narrazione a senso unico, secondo la quale tutto ciò che decidiamo di definire come “smart” è buona cosa, a prescindere.
Il tempo delle scelte tra due idee del lavoro
Questo è invece il tempo giusto per far decantare le passioni, le retoriche, le narrazioni di comodo, così come (sul fronte contrario) le idiosincrasie preconcette, le chiusure istintive, i conservatorismi irreali. Sappiamo che la tecnologia ha reso possibile lavorare da remoto anche in condizioni limite come quelle imposte dalla dura legge del distanziamento in pandemia. Ed è stata una grazia ricevuta. Ma la tecnologia non può imporre, da sola, un nuovo senso alla storia del lavoro (e dunque dell’uomo). Aguzzando la vista, di fronte a noi possiamo vedere due sentieri di sviluppo che potremo prendere in ragione delle scelte che faremo in futuro. Da un lato vi è un modello economico che riduce il lavoro a pura prestazione produttiva: l’uomo è misurato rispetto alla sua capacità di “funzionare” al meglio, poco importa se lo farà in ufficio da casa, sopra un albero o in mezzo a un deserto. Dall’altro lato c’è invece un’idea del lavoro umano che, come ci insegna il sociologo Pierpaolo Donati, non è riducibile a una semplice relazione economica “prestazionale”, ma deve essere concepito come relazione sociale: relazione con l’altro, con la realtà, con un’organizzazione, con un luogo. Allo stesso modo Papa Francesco sostiene al punto 125 dell’enciclica Laudato si’: «Qualsiasi forma di lavoro presuppone un’idea sulla relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sé». Se osservato da questa seconda angolatura, il lavoro umano appare pienamente umanizzato perché dotato di senso, orientato all’apertura verso il mondo: «Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno» (San Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 31). Lavorando, l’uomo diventa insomma più uomo. E, ampliando l’orizzonte, lavorando l’uomo accede a un catalogo di diritti e di doveri che da un lato lo rendono autenticamente cittadino, dall’altro lo integrano nella comunità. Dunque, il lavoro è relazione e al tempo stessa crea relazione con il mondo. Vi è perciò un nesso strettissimo tra lavoro e fioritura dell’umano in tutte le sue dimensioni, come già Aristotele aveva presentito. Ed è proprio dentro questa fioritura umana che il lavoro rappresenta il modo privilegiato con cui l’umano di ciascuno entra in relazione con l’altrui umanità.
Pesenti e Scansani sono gli autori di «Smart working reloaded - Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie» - Vita e Pensiero
Ci attende davvero la morte dell’ufficio?
Vent’anni prima della geniale idea di Jack Nilles, uno dei massimi scrittori di fantascienza, Clifford Simak, immaginava in un suo romanzo (apparso in Italia nel 1952 con il titolo “Anni senza fine”) che a partire dal XX secolo gli esseri umani avrebbero abbandonato le città in favore della campagna, perché in grado di comunicare e lavorare da remoto grazie a tecnologie sempre più efficienti. Le città finivano col diventare i relitti di un’era preistorica, perché l’uomo, sempre più confinatosi in casa, era nel frattempo sparito dalla Terra, abitata ormai solo da robot e da cani parlanti i quali, secoli dopo, s’interrogano su una leggenda: l’esistenza, un tempo, dell’essere umano. Le società al tempo dello smart working sono destinate a questo futuro distopico? Naturalmente no, ma la visionarietà della letteratura anti-utopistica rappresenta sempre uno stimolo a porci le domande giuste su noi stessi. Come concepiamo il lavoro, oggi? E come intendiamo concepirlo nel prossimo futuro? Sono domande che sembrano importare a pochi nello scintillante mondo della consulenza impegnato a sospingere l’idea di un lavoro agile “sempre e per sempre”, prefigurando addirittura la “morte dell’ufficio”. Ma resta interamente aperto il problema di fondo: fino a che punto è umanamente sostenibile questa utopia della remotizzazione totale? La scelta tra un’idea ridotta, produttivista ed efficientista, ed una di tipo relazionale, più ariosa e dunque più capace di cogliere la complessità dell’esperienza umana, ci vedrà tutti protagonisti. Con la consapevolezza che probabilmente proprio il significato che daremo alla parola “smart working” potrà fare la differenza verso l’una o l’altra concezione del lavoro.
Tutti diventino “agili” per un vero “lavoro agile”
Lavorare da remoto, grazie agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, può certamente permettere di ridurre una parte di questa fatica, liberandoci almeno in parte dalle necessità di spostamento, dalle perdite di tempo “interstiziali”, dai contrattempi indesiderati, e dunque restituendoci tempo utile per noi stessi e per la cura dei nostri cari. Tuttavia, l’esperienza della pandemia (ma prima ancora, una abbondante letteratura proveniente da Paesi in cui la remotizzazione del lavoro è già da molto tempo un’esperienza diffusa) sembra suggerire che accanto a questi innegabi- li vantaggi la remotizzazione del lavoro porti con sé anche non pochi rischi. C’è ad esempio un’ampia evidenza scientifica dei rischi associati all’aumento dello stress, alla rottura degli argini tra tempo per sé e tempo di lavoro, all’aumento delle ore lavorate a parità di salario, alla sensazione di isolamento, le cui conseguenze ricadono sulla tenuta psicologica della persona ma anche sulla possibilità stessa di concepirsi come parte di quella peculiare forma di comunità che è l’impresa. Con sullo sfondo, si badi, anche la concreta possibilità che si vadano ad indebolire gli strumenti tradizionali della rappresentanza, con ripercussioni ovvie sulla capacità del sindacato di continuare ad essere in relazione con luoghi di lavoro sempre meno popolati o addirittura deserti. Non è dunque un caso se un recente report Inapp (Istituto Nazionale Politiche Pubbliche) segnali come il 54% di chi ha fatto esperienza del lavoro da remoto in questi due anni non abbia più intenzione di utilizzarlo proprio a causa degli effetti negativi segnalati. Per limitare questi rischi, riteniamo che occorra molto tempo e molto impegno per concepire una nuova organizzazione del lavoro. Occorrerà riprogettare le organizzazioni, ripensare i ruoli, concepire il management fuori dalla logica moderna comando-controllo ma dentro l’idea di un modello produttivo costruito per fasi, cicli e obiettivi misurabili e dunque valutabili. L’organizzazione agile dovrà essere costruita a partire dalla fiducia, dalla libertà di chi lavora di scegliere se e in che misura avvalersi di modalità di lavoro da remoto, dalla capacità di tenere vive le relazioni e di non svuotare di significato i luoghi del lavoro, che sono anche elementi essenziali dell’identità di chi ci lavora. Se così sarà, anche il lavoro agile potrà concorrere a umanizzare il lavoro, salvandolo dalle logiche dis-umanizzanti e immunizzanti del lavoro digitalmente modificato. Una sfida di civiltà, insomma.