Cosa colpisce di più dell’ultima immolazione in Tibet, avvenuta ieri? Il fatto che a darsi fuoco sia stato un giovane uomo di 31 anni? O che il totale dei suicidi salga a 89? O, ancora, il trend – assolutamente allarmante – di 27 immolazioni nel solo mese di novembre?Non ci dovrebbe essere bisogno di spingere sul pedale della retorica per conquistare l’attenzione del lettore. I fatti sono lì, parlano da soli. Analogamente, il popolo tibetano non dovrebbe essere costretto a gesti tanto eclatanti quanto sbagliati (una vita bruciata è una vita sprecata) per attirare lo sguardo del mondo. Eppure. Quanto sta accadendo dice che il Dalai Lama, da sempre contrario ai gesti estremi di protesta, sembra sempre più incapace di bloccarne il tragico ripetersi.Ma, ancor di più, mostra che all’indomani della chiusura del 18mo Congresso del Partito comunista cinese, la nuova dirigenza non sa (o non vuole) porre fino allo stillicidio di soprusi e violenze che da anni si perpetua in Tibet. È come se il problema non esistesse. Del resto, la delegazione tibetana al Congresso pare abbia presentato un quadro della realtà totalmente falsato. Ma allora non si capisce perché solo pochi giorni prima le autorità di Pechino avessero introdotto un sostanzioso premio economico per gli informatori in grado di dare notizie ai presunti 'candidati all’immolazione'.La verità è che 'Tibet', in Cina, è una parola-tabù. Una ferita che sanguina da tempo. Dal lontano1959. Di recente il mondo è tornato ad accorgersene nel marzo 2008, quando, alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino, i tibetani avevano provato a far udire la loro voce con una grande manifestazione di protesta, purtroppo repressa nel sangue. Da allora la stretta di Pechino sul Tibet si è fatta, se possibile, ancora più pressante. Solo pochi giorni fa, il 26 novembre, migliaia di studenti di una scuola di medicina nell’area tibetana del Qinghai hanno protestato contro le classi di 'educazione patriottica' e un questionario politico imposti dal regime agli studenti tibetani. La polizia è intervenuta: una ventina di vittime, alcune delle quali in gravi condizioni. Ma se riavvolgiamo il nastro degli ultimi mesi, scopriremo che il 6 gennaio era ricominciato il rito delle auto-immolazioni, in quel caso nei pressi del monastero di Kirti. Proprio lì, nell’ottobre 2011, si uccise, dandosi fuoco, la prima donna, una monaca.Non è un caso, quindi, che dalla primavera scorsa i monasteri siano finiti nel mirino dei capi di Pechino: esautorati i monaci, i 1.800 templi sono stati posti sotto controllo diretto di funzionari del governo. Una scelta a dir poco bizzarra, per un regime che si fregia di essere ateo. E ora, cosa accadrà? «Le proteste sono destinate a continuare nel tempo fino a quando i leader mondiali continueranno a chiudere gli occhi davanti alla situazione disperata in cui versa il Tibet », ha dichiarato un analista. Il punto è proprio questo: o la comunità internazionale prende finalmente coscienza che in Tibet è in atto un’autentica colonizzazione che violenta le tradizioni culturali e religiose di quella gente, penalizzandola socialmente, oppure Pechino continuerà indisturbata nella sua strategia di assimilazione forzata di un popolo e di tutti i suoi tesori.Certo, da quando la Cina è diventata la seconda economia del mondo è sempre più difficile pestare i piedi in nome dei diritti. Ma tanto gli Usa e l’Europa quanto i Paesi emergenti (i famosi Bric che da 'stelle' dell’economia puntano ad entrare da protagonisti nel salotto buono della politica mondiale), dovrebbero trovare il coraggio di chiedere alla Cina un’autentica inversione a U sulla via del Tibet.