Lucida e del tutto condivisibile la lettura che Francesco Ognibene, nel suo editoriale apparso su 'Avvenire' del 18 marzo, ha dato della nuova legge francese sul 'fine vita', una legge che pretendendo di dare all’«autonomia» e alla «morte degna» del paziente lo statuto di veri e propri «nuovi diritti» e qualificando la «sedazione terminale» come una autentica prassi medica (nascondendo ciò che in realtà essa è, cioè una pratica eutanasica) altera in modo subdolo la stessa immagine sociale della persona umana, il cui valore viene inevitabilmente ridotto alla persistenza delle sue capacità funzionali: capacità inevitabilmente destinate a declinare a causa di patologie e per l’inevitabile scorrere del tempo, togliendo alla persona quella dignità che ne giustificherebbe una piena protezione medico-sociale. Siamo arrivati quindi anche in Francia alla legalizzazione dell’eutanasia? La legge francese, con molta sottigliezza, non usa questo termine e sembra piuttosto finalizzata a garantire forme nuove e più efficaci di palliazione (come, per l’appunto, la «sedazione terminale»); ma, nella sostanza, come conclude Ognibene, «l’eutanasia attiva è dietro l’angolo» ed è proprio in tal senso che questo nuovo testo normativo viene letto e interpretato pressoché da tutti i commentatori. Non avendo assolutamente nulla da aggiungere a queste calibrate parole, mi lascio trasportare a elaborare una riflessione ulteriore, che ormai non è più dilazionabile. Se da una parte è più che giusto criticare la nuova normativa, anche ai massimi livelli (come hanno fatto, ad esempio i vescovi francesi), se è doveroso combatterla, almeno dando testimonianza della persistenza di un’altra, diversa e superiore sensibilità nei confronti delle questioni di fine vita, dall’altra però è del tutto irrealistico ipotizzare che qualsivoglia impegno antieutanasico, per quanto generoso, possa portare in tempi ragionevoli a una qualsiasi inversione di tendenza. È un fatto che la nuova normativa francese sia stata approvata dall’Assemblea nazionale a stragrande maggioranza e si può ragionevolmente sostenere che mai come in questo caso i deputati si siano davvero comportati come veri 'rappresentanti' dei loro elettori, dando cioè concretezza legislativa a opinioni diffusissime nella popolazione. E ne è ulteriore prova, purtroppo, il dilagare di analoghe normative in tanti altri Paesi del mondo, che stanno definitivamente erodendo la visione ippocratica della medicina, per la quale il compito del medico è quello di operare sempre per la vita e mai per la morte. Questa visione è ormai minoritaria e non è plausibile pensare che non solo nel breve periodo, ma anche nel medio, possa modificarsi. La domanda che torna ad imporsi è quindi quella classica: che fare? Ritengo scontato che i 'difensori della vita' non debbano mai scoraggiarsi, abbassare la guardia, rassegnarsi, né meno che mai fuoriuscire dal dibattito pubblico, arrivando cioè, come si suol dire, a 'rinchiudersi nelle catacombe'. Ma ormai tutto questo non basta. È necessario fare un passo avanti estremamente difficile, perché assolutamente nuovo: bisogna non riformulare, ma 'formulare' sul piano concettuale e comunicativo un nuovo paradigma bioetico, che non consista nella mera riproposizione, per quanto ottimamente argomentata (ma inevitabilmente stanca!) di «valori tradizionali». È indispensabile giungere all’elaborazione e alla proposta di pratiche e di valori 'nuovi', sconvolgenti, provocatori e radicalmente antitetici a quelle pratiche e a quei valori che hanno portato a leggi a favore dell’eutanasia. Faccio un solo esempio, indubbiamente ruvido: bisogna tornare a riformulare il rapporto che intercorre tra sistema sanitario e terza età, perché la medicalizzazione estrema e assistenziale (ancorché generosa) dell’ultima fase della vita, che è dilagante nell’occidente secolarizzato, ci sta portando ineluttabilmente ad affidare al sistema pubblico una gestione tragicamente burocratica della morte (che è fatale che si risolva nell’eutanasia attiva). Dobbiamo tornare a 'privatizzare' la nostra vita e soprattutto la nostra morte, perché l’unico luogo realmente umano del vivere e del morire è quello familiare, è il luogo caldo degli affetti, e non quello inevitabilmente freddo delle istituzioni e degli ospedali. Pochi sono disposti oggi a riconoscere che nella crisi della famiglia si riassume la crisi antropologica del nostro tempo e che della crisi della famiglia l’abbandono dei morenti è conseguenza inevitabile. Per ricollocare all’interno della famiglia (e nelle nuove forme rese necessarie dalla globalizzazione) le fasi qualificanti della vita umana (nascita, matrimonio, procreazione, educazione, assistenza ai deboli, ai malati, ai morenti) non basteranno argomentazioni, ancorché sottili e inoppugnabili: sarà necessario smascherare la falsa coscienza dell’individualismo assoluto oggi dominante e proporre un nuovo orizzonte di diritti, che siamo ancora ben lontani dal riuscire a mettere a fuoco (dobbiamo riconoscerlo con grande onestà intellettuale). Ma credo che questa sia l’unica via che abbiamo davanti a noi e che non ne esista altra possibile strada da percorrere.